L'inverno del nostro scontento
2 Settembre 2019

Aprite i porti, fateli scendere!

di Girolamo De Michele | 3 min

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Faccio mie le parole di Peter Freeman, giornalista di vecchia data, ma soprattutto persona di grande intelligenza, di cui condivido quasi sempre quel che scrive.
Se poi non siete di quelli che ci godono a vedere annegare esseri umani, se non siete clandestini dell’umanità ed extracomunitari della civiltà, nell’altro post, che aggiornerò giorno per giorno, il diario di bordo di Cecilia Strada dalla nave Mare Jonio. (L’immagine è un dipinto di Jovcho Savov (2015)

Quando vedo i bambini, le donne e gli uomini che dopo mille peripezie giungono in salvo sulle nostre coste, provo a immaginare la loro vita prima e durante il lungo viaggio. È pura immaginazione, perché di loro non sappiamo nulla, e probabilmente non sapremo mai.
Immagino la povertà, le tante guerre che flagellano il loro continente, l’Africa, la desertificazione progressiva provocata dal cambiamento climatico sempre più rapido e repentino: le tante ragioni della loro fuga.
Me li immagino risalire le strade che dall’Africa equatoriale portano al Sahara, e poi la traversata del deserto (quanti ne muoiono durante quel tragitto?), l’arrivo in Libia dove li attende un’altra guerra, carceri, lager, predoni, stupri, percosse.
Il loro viaggio, la loro storia è fatta di tutto questo (non per tutti ma per la maggior parte sì) e ognuno degli ostacoli che devono affrontare e superare, ognuna delle violenze che devono subire, riempirebbero da soli la vita di chiunque di noi: ne parleremmo, ci scriveremmo un libro, finiremmo intervistati sui giornali e nei TG. Titoli tipo: “L’incredibile e inaudita odissea del signor Rossi: tutti i particolari in cronaca”. Uno solo di questi ostacoli, di queste violenze, basterebbero a dar senso a una esistenza intera.
Quando poi arrivano in acque italiane li attendono i divieti, la forza pubblica, le motovedette, le urla di scherno o di odio del popolino aizzato da un ministro fascistoide. O, se gli va bene, le sparate sui “taxi del mare” del vice-premier pentastellato o di qualche suo collega.

Io chiamo Matteo Salvini fascista e lo rivendico. Non mi interessano i distinguo storici tipo: “Non ha le milizie”, “dove sono gli agrari?”, “ma nel ’22 le dinamiche furono differenti”, insomma le lezioncine un tanto al chilo di chi ha letto De Felice (grazie, l’ho letto anch’io), perché non è di storia che sto parlando ma di attualità, cronaca, dell’oggi e dello stato del nostro Paese. Magari oltre a De Felice leggetevi anche Piero Gobetti sul fascismo come “autobiografia della nazione”. In ogni atto di Salvini, in ogni suo gesto, in ogni sua parola, ho letto sempre e soltanto la volontà di dividere, incattivire, creare rancore, generare in altri sentimenti violenti che lui poteva sfruttare politicamente. Mi basta questo.

E dunque quando vedo questi bambini, queste donne e questi uomini che hanno affrontato, sopportato e superato tutto ciò che la modernità e la ferocia del mondo capitalistico ha riservato loro, quello che desidero è che trovino la pace, la serenità, una vita migliore. Se lo meritano tutti. E mi piace immaginarli vivi e felici nel nostro Paese (anziché ridotti a schiavi come invece accade), con in mano la loro vita e il loro destino, pastori sulle nostre montagne disabitate, contadini nelle campagne, cittadini delle nostre metropoli, laureati e sicuramente capaci di parlare una lingua migliore di quella dei nostri viziatissimi giovani. Per una volta, che vinca il merito. (dalla pagina fb di Peter Freeman, 30 agosto 2019)

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