L'inverno del nostro scontento
4 Dicembre 2018

Una scuola militante contro la vandea

di Girolamo De Michele | 9 min

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Anche la Corte Costituzionale boccia la residenzialità storica

È quanto ha deciso nei giorni la Corte Costituzionale che ha ritenuto incostituzionale il criterio della residenzialità storica per l'assegnazione delle case popolari relativamente a una previsione normativa della Regione Veneto, ma valido per tutte le amministrazioni italiane

Questo testo è stato originariamente scritto per un blog nazionale. Lo ripubblico qui, con qualche aggiunta. Buona lettura

Una nota del MIUR, inviata alle scuole il 22 novembre scorso (che può essere letta, e sarebbe bene che avvenisse, qui) ha scatenato l’esultanza di alcune congreghe (Moige, Pro Vita, Articolo 26, Generazione Famiglia), convinte di aver conseguito una vittoria nell’affermazione del diritto-dovere delle famiglie di opporsi a una presunta “colonizzazione ideologica di progetti ispirati alla dittatura gender” (così Jacopo Coghe, presidente di Generazione Famiglia), e la preoccupazione dei sindacati scuola – firmatari del vergognoso rinnovo del contratto della scorsa primavera: ma che te lo dico a fare? –, che hanno chiesto un incontro urgente di chiarificazione col ministro, paventando il rischio che la nota possa “generare confusione ed indurre equivoci e di scaricare sulla dirigenza scolastica procedure in contrasto con il quadro normativo esistente, peraltro richiamato anche in interventi della Corte di Cassazione a Sezioni Unite” (qui il comunicato sindacale).
Premesso il fatto che per l’ordinamento giuridico italiano vale la gerarchia delle fonti (in qualche modo richiamata dal comunicato sindacale), per cui una nota non può equivalere, men che meno fare aggio, al dettato costituzionale che tutela la libertà di espressione ed insegnamento delle arti e della scienza, vediamo di cosa si tratta.

Che cosa dice davvero la nota?

Due cose in realtà banali, che non sono una novità: che il PTOF debba essere noto alle famiglie all’atto dell’iscrizione dei propri figli alla scuola, e che le attività extracurricolari sono per loro natura facoltative. Nella nota non si fa alcun riferimento ai contenuti dell’offerta formativa. Ora, che il PTOF – Piano Triennale dell’Offerta Formativa – debba essere già noto al momento dell’iscrizione è una ovvietà, dal momento che esso è per l’appunto triennale, e dunque viene approvato, o rinnovato, nell’anno precedente il triennio successivo. Quanto alle attività di ampliamento e arricchimento dell’offerta formativa, la loro natura facoltativa è prescritta dalla stessa legge che le ha istituite (DPR 275/99, art. 9, commi 1-2, qui), nonché dallo Statuto delle studentesse e degli studenti, che è legge dello Stato (DPR 249/98, art. 2 comma 6, dove si parla di “attività aggiuntive facoltative”).
Tradotto in parole povere: oltre alle attività curricolari, che si svolgono nel normale orario scolastico, la scuola può porre in essere progetti, corsi integrativi, e ogni al tra attività al di fuori dell’orario ordinario (banalmente: nel pomeriggio). Queste attività sono sempre state facoltative: io posso proporre un progetto, se la scuola me lo approva lo faccio, ma non posso imporre ad alcun@ student@ di parteciparvi, se per qualsivoglia ragione non può o non vuole. Così è sempre stato, e se queste attività si sono svolte con diverse modalità si è violata la legge.
In nessun modo questa nota entra invece nel merito delle attività curricolari, e nessun potere di veto conferisce alle famiglie rispetto a tali attività, indipendentemente dai contenuti e dalle modalità di attuazione. Quando Chiara Iannarelli di Articolo 26 parla di imposizione di “progetti non condivisi” che “per i loro contenuti sono da sottoporre alle scelte educative delle singole famiglie, anche se svolti nel normale orario scolastico”, semplicemente non sa di cosa sta parlando, dal momento che non si dimostra capace di distinguere la facoltatività delle attività extracurricolari dalle attività curricolari svolte in orario scolastico. Cito da un dotto commento:

Se l’astensione dalla frequenza può non considerarsi “veto” ovvero inibizione a quella specifica attività, di fatto nega quanto espresso in materia di autonomia, raggiungendo un obiettivo sostanzialmente analogo.
Con l’iscrizione si instaura un rapporto contrattuale che non può essere interrotto o derogato all’occorrenza. La famiglia aderisce alle scelte strategiche dell’istituzione. L’astensione dalla frequenza in orario curricolare implica rinnegare tale adesione.
Allo stato, il “consenso informato” in ambito scolastico non trova riscontro normativo, né può essere introdotto per nota. [Cinzia Olivieri, “Consenso informato” dei genitori? Nessuna novità, vince il PTOF, in Scuola7, qui]

Se ci fossero dubbi, inequivoche sono le parole delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Ordinanza n. 2656/2008, che può essere letta integralmente qui; le SS.UU. intervenivano in merito a un corso di educazione sessuale):

È pertanto certamente ravvisabile un potere della amministrazione scolastica di svolgere la propria funzione istituzionale con scelte di programmi e di metodi didattici potenzialmente idonei ad interferire ed anche eventualmente a contrastare con gli indirizzi educativi adottati dalla famiglia e con le impostazioni culturali e le visioni politiche esistenti nel suo ambito non solo nell’approccio alla materia sessuale, ma anche nell’insegnamento di specifiche discipline, come la storia, la filosofia, l’educazione civica, le scienze, e quindi ben può verificarsi che sia legittimamente impartita nella scuola una istruzione non pienamente corrispondente alla mentalità ed alle convinzioni dei genitori, senza che alle opzioni didattiche così assunte sia opponibile un diritto di veto dei singoli genitori.

Torno a fare un esempio: gli organi collegiali della mia scuola mi hanno approvato un corso di approfondimento del curricolo di storia “Dalla globalizzazione alle migrazioni”, in orario pomeridiano: viene chi vuole, chi non vuole non viene, fine della storia. Se fosse un corso di educazione all’affettività varrebbero le stesse regole.

Nessuna associazione o genitore, per contro può interferire nella mia attività curricolare, nella metodologia, nei contenuti che insegno:

  • se spiego Platone, è mio diritto insegnare che per Platone il genere sessuale non è costitutivo dell’identità, mentre lo è il possesso dell’anima (ragione per cui le donne non sono discriminate rispetto agli uomini), anche se qualche sentinella all’in piedi potrebbe intendere questa affermazione come “teoria gender”;
  • se ritengo di dover segnalare che l’amore di cui parla Socrate in apertura del Protagora è omosessuale, così come omosessuale è il rapporto fra Zenone e Parmenide, lo faccio, quantomeno per non arrogarmi il diritto di mettere i mutandoni a Socrate, checché ne pensi il Moige;
  • se ritengo di dover usare gli strumenti forniti da Foucault con la sua Storia della sessualità, lo faccio, perché è una mia libera scelta giudicare quale è lo strumento didattico migliore per la formazione di una testa ben fatta;
  • se ritengo utile alla didattica seguire il percorso trasversale “Questioni di genere” proposto dal manuale di storia lo faccio, senza curarmi di chi legge “genere” e capisce, problemi suoi, “gender“;
  • se trovo utile che i miei studenti partecipino a un progetto scolastico per la realizzazione di uno spot informativo sull’AIDS non solo li autorizzo a parteciparvi, ma li incoraggio, con buona pace di quel ministro che sosteneva che “l’AIDS se lo prende chi se lo va a cercare”, e di chi questa infamia la ripete anche oggi: al più, posso augurarmi che l’uno e gli altri brucino all’inferno, se ne esiste uno oltre quello che è qui in terra;
  • se ritengo di dover spiegare che è una favola che “senza la vittoria di Poitiers saremmo tutti islamici” (idem per Lepanto), e di dover invece spiegare che l’espansione dell’Islam arabo prima, e dell’Impero Ottomano poi, si arrestarono quando le rispettive economie-mondo raggiunsero un limite non oltrepassabile, lo faccio: e pace se c’è qualche genitore che considera Adinolfi un punto di riferimento, io mi tengo ben stretti Braudel e Wallerstein.

Le associazioni di cui sopra, insomma, con la loro scomposta esultanza confermano quell’ignoranza nelle cose scolastiche che ha fatto credere loro che (a) esista una qualche teoria gender, che (b) viene insegnata in modo subdolo, (c) all’interno di un complotto diseducativo, magari (d) finanziato da qualche occulto giudeo-pluto-massone-palindromo. Per la cronaca, a me il bonifico di Soros non è mai arrivato.

Tutto bene, dunque?
No, per niente.

Intanto, perché la scuola non è una torre d’avorio, e sarebbe bene ricordare che fra genitori, studenti e insegnanti non c’è una linea che distingue buoni e cattivi per categorie. Esiste una società incivile, nella quale viene legittimato il ricorso all’odio, alla discriminazione, alla violenza verso il diverso. Di questa comunità del rancore fanno parte anche degli insegnanti (potrei fornire esempi di odiatori della mia città [Ferrara] che sono, o sono stati, persone di scuola), così come ad opporvisi sono anche delle famiglie. E di questa doppia constatazione bisogna tener conto.

E poi, perché ci sono altre forme di condizionamento dell’insegnamento, molto più subdole.

Ad esempio, attraverso l’imposizione di metodologie didattiche proposte con casuale simultaneità da commissioni ministeriali e manuali scolastici, che impoveriscono la qualità e la sostanza della didattica. Lo abbiamo visto noi insegnanti di filosofia lo scorso anno con i cosiddetti “Orientamenti per l’apprendimento della filosofia nell’età della conoscenza”, che prefiguravano l’insegnamento di una filosofia che, cedendo davanti al proprio desiderio, si adattava al misero ruolo di counseling filosofico.

Ad esempio, con la riduzione dei quadri orari e dei curricoli, attuata dalla riforma Gelmini e confermata dalla riforma Renzi-Giannini-Lodoli (la cosiddetta “Buona scuola”). Per fare un esempio, il problema non è se io ho o meno la libertà di proporre un progetto sui migranti, o di inserire le migrazioni nel curricolo di storia. Il problema è che con le ore ridotte di cui dispongo, il più delle volte non riesco a trattare temi come le cosiddette invasioni barbariche, o la nascita dell’Islam (nel biennio), o la globalizzazione (nel triennio). E se non riesco a farlo, fuori dal cancello scolastico c’è una società incivile, nella quale studentesse e studenti apprenderanno una versione razzistica, ma prima ancora falsa, di questi contenuti. E io, come insegnante, avrò avallato per omissione questa disinformazione. O, per cambiare disciplina, se io come insegnante di scienze ho i curricoli ridotti (e in quasi tutti gli indirizzi il combinato Gelmini-Renzi li ha ridotti), io potrò non riuscire a dare a studentesse e studenti la necessaria capacità critica per discernere scienza e chiacchiera, informazione e bufala, e li consegnerò alla canea scomposta che si è scatenata da due anni sulla questione dei vaccini, non essendo riuscito a formare – non per mia volontà – cittadini in possesso degli adeguati strumenti critici.

Ad esempio, con una campagna che sta montando sottotraccia nei confronti dei manuali scolastici da parte di chi sa bene che i conti dell’economia a un certo punto smettono di essere scritti sull’acqua, e devono essere messi nero su bianco, e ha bisogno di cercare nuovi argomenti di propaganda. In questo momento sono additati come untori (probabilmente al soldo del solito miliardario palindromo) gli autori di testi nei quali (mi limito a un solo esempio) si parla dei regni romano-barbarici come di una stabilizzazione del rapporto fra Goti e Latini (notizia che sarebbe una falsità propagandistica al soldo della sostituzione etnica e dell’ideologia invasionistica – prego di credere che non invento alcunché). Ma non dimentichiamo la campagna antiscientifica contro Darwin e l’insegnamento dell’evoluzionismo, che non si è mai interrotta: ha solo cambiato strumenti.


Soprattutto: ciò che deve preoccupare, è l’inadeguata consapevolezza delle e degli insegnanti verso il clima di rancore e di odio che sta pervadendo il paese. Rinchiudersi nel proprio particolare, sottovalutare il contesto, non saper esercitare uno sguardo di lunga durata sul mondo significa venir meno ai presupposti del mestiere di insegnate, fingendo di non sapere che, prima o poi, ogni scuola diventerà una piccola rancorosa Gorino.

Assoggettarsi, o assumere una postura etica: dentro e fuori la scuola, e non da ieri, per la comunità scolastica – insegnanti e non, genitori, studenti – non esiste una terza via.

Se è consentito parafrasare un grande poeta (che è stato anche uno straordinario insegnante), Claudio Lolli: certo che il mantello di don Milani «è sempre in prima fila lì sull’attaccapanni» della sala insegnanti, e il suo fucile «è lì nascosto in quel libro di racconti: però che non diventino ricordi o fantasie, che non sia caricato solamente a sogni» [la ballata di Lolli Attenzione è qui]. Che lo si armi con una didattica che si rivolge non a singoli individui, ma al comune che apprende (e, why not, contesta e confligge), all’interno di uno stile di vita che al grigiore impiegatizio, alla frustrazione e alla sottomissione, sostituisce la cooperazione sociale: una scuola militante.

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