Attualità
30 Novembre 2018
Tutto esaurito per il convegno dei notai al Ridotto. Lo psichiatra: "Sbagliato etichettare come depressione una cosa vitale come non aver voglia di vivere"

Testamento biologico, Crepet: “Riabilitare la vita per dare un senso alla morte”

di Elisa Fornasini | 4 min

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Notai, medici, psicologici, sociologi ed esperti a confronto su Dat (disposizioni anticipate di trattamento) e testamento biologico a un anno dall’approvazione della legge 219 che ha disciplinato il fine vita. Un tema delicato e complesso analizzato da diverse sfaccettature e angolazioni nelle quattro ore di convegno “Il diritto di scegliere, il dovere di informare”, organizzato dal Collegio Notarile di Ferrara, che ha riempito il Ridotto del teatro Comunale e, in streaming, la sala conferenze della Camera di Commercio.

Aperto dai saluti del presidente del consiglio notarile Giuseppe Giorgi – che ha fatto una panoramica sugli “avanzati principi ideologici e giuridici” recepiti dalla legge come l’importanza del consenso informato e dell’autodeterminazione terapeutica del paziente che può spingersi fino al sacrificio della vita -, del sindaco Tiziano Tagliani – che ha ribadito il “bisogno di informazione” su uno “strumento ancora poco utilizzato perché appunto poco conosciuto” – e della consigliera nazionale del Notariato Valentina Rubertelli – che ha sollecitato l'”attuazione del registro nazionale delle Dat perché senza la rintracciabilità è difficile che possano essere utilizzate” -, l’incontro ha visto come ospite d’onore Paolo Crepet.

Lo psichiatra, sociologo e scrittore doveva intervenire su “Diritto alla vita, diritto alla morte” ma ammette che “invecchiando ho capito l’umiltà delle parole, non so cosa sia la vita o la morte: vedo un sacco di morti che camminano per strada, apatici istruiti al totale disprezzo della vita che al massimo fanno la foto del cappuccino la mattina”.

Il senso della battuta è di “imparare a vivere prima di discutere su come morire“, e allo scopo di “riabilitare la vita per dare un senso alla morte”, Crepet chiede di partire dai giovani, “ai quali non è insegniamo cos’è la vita o la passione, che è la miglior tribolazione”. Eppure non è d’accordo con quanto scritto da Piergiorgio Welby al presidente della Repubblica Napolitano contro il “testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche”.

“Non sono d’accordo perché mi è capitata una cosa strana – racconta Crepet -: sono amico da 60 anni di Francesco che è stato colpito dalla Sla ma, nonostante non riesca a muovere niente se non gli occhi, è il primo a non voler morire, si è attaccato a un lembo di resistenza di vita. La prima volta che mi è capitato è stato con il mio maestro Franco Basaglia, gli è venuto un cancro nel posto migliore del suo corpo, il cervello. È il destino, come io mi sono salvato alla stazione di bologna 30 anni fa”.

E non nasconde di “detestare gli psichiatri”: “Mi accanii contro il professor Cassano sul caso di Primo Levi e in generale contro la tendenza a etichettare come depressione una cosa semplicemente vitale come non aver voglia di vivere. Conoscevo Lucio Magri che è andato in Svizzera con grande consapevolezza perché era stufo di vivere. Il giorno in cui ci si suicida di più è il 26 dicembre perché il Natale è una festa orribile per tante persone che odiano l’ipocrisia. Abbiamo ammazzato quelli che pensavano come Pasolini e Antonioni che nel Deserto Rosso spiega perfettamente l’incomunicabilità”.

Mentre continua la sua “battaglia civile per la difesa della terapia del dolore, c’è la lista di attesa ai centri per bambini”, Crepet vorrebbe che “i politici che difendono i no vax non mettano le loro zampette lorde dentro questo tema che ha a che fare con la nostra coscienza e civiltà in un momento in cui si è persa l’umanità e c’è un certo odore razzista contro le diversità”.

Interessante l’intervento “Mors mea, vita mea, il fine vita e la Costituzione” di Paolo Veronesi, professore del dipartimento di scienze giuridiche Unife, che ripercorre i casi giuridici dei ‘pazienti capaci, consapevoli e informati’ a interrompere i trattamenti salvavita (casi Welby e Piludu) e dei ‘pazienti privi di coscienza’ (caso di Eluana Englaro) fino alla legge 219 che “giunge a 33 anni dal primo disegno di legge in materia, il cosidetto progetto Fortuna, che rappresenta un risultato positivo ma non disciplina alcune evenienze tragiche”.

Il caso più discusso è quello di dj Fabo (e dell’autoaccusa di Cappato vista da Veronesi come “atto di disobbedienza civile per riconoscere il suicidio medicalmente assistito”), la cui recentissima ordinanza della Corte Costituzionale rappresenta un “nitidissimo accertamento di incostituzionalità differita che dà voce al Parlamento che deve decidere entro il 24 settembre 2019. Il processo è sospeso fino a quella data ma qualunque sarà l’esito, ogni soluzione offenderà alcuni modi di pensare: per alcuni la libertà che limita una vita non è libertà, per me una vita che limita la libertà non è vita“.

Dalla dignità e laicità all’approccio medico di Rosa Maria Gaudio, ricercatrice del dipartimento di scienze mediche dell’Università di Ferrara, fino all’analisi notarile del notaio bolognese Marco Saladini Pilastri, sotto il coordinamento del giornalista Pierluigi Masini, non manca una riflessione sulla “simbolizzazione della morte” della psicoterapeuta Giusi Di Donato e sull’utilizzo delle parole della giornalista e autrice Camilla Ghedini, che ha prodotto uno spettacolo teatrale sul tema tratto dal sui libro “Interruzioni”, e che invita il folto pubblico a “cambiare approccio alla morte come fatto naturale e non come ‘indebita violenza’”, citata nel libro Una morte dolcissima, prima di leggere la toccante lettera di Welby a Napolitano.

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