Eventi e cultura
6 Ottobre 2018
Partendo dal suo ultimo libro, il fisico e scrittore a Internazionale parla di fecondazione assistita, Xylella, religione e cultura: “Manca anello di congiunzione tra tecnica e vita delle persone”

La “violenza” della scienza raccontata da Paolo Giordano

Da destra: Paolo Giordano e Michele Fabbri
di Daniele Oppo | 4 min

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Da destra: Paolo Giordano e Michele Fabbri

Da destra: Paolo Giordano e Michele Fabbri

L’aula magna del dipartimento di Economia riempita in ogni seggiola, tre aule per lo streaming. Il suo workshop è uno di quelli da tutto esaurito. Valeva davvero la pena ascoltare Paolo Giordano – fisco, premio Strega con La solitudine dei numeri primi, in libreria ora con Divorare il cielo – ospite venerdì pomeriggio del Festival di Internazionale e del Master Unife in giornalismo e comunicazione della scienza per parlare di come proprio i temi della scienza s’intreccino nella letteratura.

È il suo ultimo libro, ovviamente, a fornire gli spunti per le domande del giornalista Michele Fabbri. Un romanzo in cui la scienza entra nella vita di tutti i giorni con il grande tema della fecondazione assistita, della questione Xylella (è ambientato in Puglia) e arriva fino a intrecciarsi con la fede.

Giordano cerca di “tirare fuori attraverso il letterario tutte le grandi sfide portate dal progresso tecnico scientifico”, e lo fa una nazione – l’Italia – in cui la dicotomia tra pensiero umanista e scientifico parte già dalla scuola e in cui troppo spesso “si costruisce un individuo che avrà per sempre un rifiuto per tutto ciò che è il sapere scientifico, e per me significa vivere in un modo inconsapevole e anche un po’ rischioso”.

Con l’intenzione però non di indorare la pillola, di far propaganda per una parte, bensì di mostrare anche “quanto può essere schiacciante e violenta la scienza nella quale veniamo immersi. La presunta neutralità della scienza non è affatto tale e il suo linguaggio è violento e offensivo”, dice Giordano. E qui sta il difetto del mondo scientifico, che “non è capace di pesare il portato umano, di responsabilità, delle cose con cui ha a che fare”.

E qui, ancora, si mostra in tutta la sua tragicità il problema, che “non è questione di ignoranza delle persone”, bensì, “di discorso mancante, di mancanza di anello di congiunzione tra la tecnica e la vita delle persone”. Lo dimostrano le storie di Divorare il cielo, dove una coppia che desidera assolutamente avere un figlio, che pure “idolatra la natura e ‘il naturale’ come massimo valore, nel momento in cui la natura non gli concedere di realizzare il suo desiderio cambia rotta di 180 gradi e si spinge addirittura verso una via ipermedicalizzata”.

Da un estremo all’altro, da un fanatismo all’altro, come quello, uguale e contrario, del rifiuto totale della scienza quando si parla degli ulivi e della Xylella.

D’altronde, afferma lo scrittore, “percepisco questi anni come fanatici: l’essere complicato del mondo, porta ognuno di noi a prendere delle posizioni nette. Di fronte a questa confusione pedagogica che abbiamo su molti temi, la reazione è quella di prendere parte, a discapito della comprensione”. E così, davanti a una miriade di posizioni, di idee, di prospettive, come accade con Xylella, come accade con i vaccini, “la pretesa della scienza di essere dirimente viene azzerata e io decido secondo la mia indole”.

Non guardiamoci troppo attorno per cercare il prossimo fanatico, perché potrebbe bastare guardarci allo specchio: “Non è questione di istruzione in senso stretto, non è un problema di ignoranza”, spiega lo scrittore, che poi prende in prestito le parole di Amos Oz: “Il gene del fanatismo non è degli altri, esiste in ognuno di noi. Il libro cerca di esplorare come questo gene si esprime in base anche al contesto sociale, all’isolamento. Il problema è il brodo culturale nel quale siamo immersi”.

In tutto questo entra in gioco anche la religione, la fede, ben presente, forse in maniera addirittura sorprendente per la sua forza determinante in Divorare il cielo. “Dico una cosa oscena in un tempo di razionalità spinta come questo: dopo anni di fisica, e a 20 anni mi dichiaravo un ateo limpido, ho sentito molto forte la sensazione di come un certo tipo di esperienza scientifica vada a collimare con un certo tipo di fede”.

Come per il resto, la divisione netta non fa il gioco di nessuno: “C’è qualcosa di molto violento, e in parte di intellettualmente disonesto, anche nel discorso che contrappone in modo deciso scienza e fede. La scienza, per quanto si perfezioni, non escluderà mai la possibilità di dio. Sono territorio ben più in sovrapposizione di quello che ci vogliono rappresentare, è una frattura stupida che continuiamo a portarci dietro”.

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