L'inverno del nostro scontento
19 Agosto 2018

Gli zingari felici di Claudio Lolli

di Girolamo De Michele | 5 min

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Claudio Lolli era un poeta, uno dei grandi del secolo scorso; era, anche, un compagno, un amico, e un collega bravissimo e amatissimo. Una decina d’anni fa, in un convegno per i trent’anni dei suoi Zingari felici, ho letto un testo, che ho pubblicato qui. Claudio, nella dedica sulla copia degli atti, mi definì “uomo assai improbabile, purtroppo, ma per questo ancor più mirabile”: ne vado fiero.

In Analfabetizzazione, Claudio ha scritto che la semantica o è violenza oppure è un’opinione. Io il testo di questa canzone l’ho letto a quindici anni; me lo sono ritagliato e l’ho attaccato nella mia stanza. A quindici anni non sapevo cosa volesse dire che la semantica o è violenza oppure è un’opinione. Però sentivo che doveva essere così. Oggi la insegno, questa frase. Inizio, la prendo lunga, arrivo agli stoici e poi scrivo questa frase alla lavagna. C’è stato un anno in cui l’ho scritta nella scuola in cui insegnava Claudio, perché eravamo colleghi. Quest’anno le sue parole mi sono stati d’aiuto, in una classe, nel riepilogare il programma di filosofia (non c’è concetto filosofico che non possa essere illustrato con i versi di un poeta): e le sue parole erano nei quesiti che sono stati sottoposti alle studentesse e studenti in terza prova. Nella prima chiedevo di esemplificare con concetti o figure filosofiche il fatto che dalla condizione di costitutiva finitezza dell’umano si dipartono due opposti movimenti, descritti da due poeti contemporanei: la gente che si lascia piovere addosso, e il far bella la luna con la nostra vita coperta di stracci e di sassi di vetro; nell’altra, di spiegare attraverso un autore o una scuola filosofica, quale relazione fra segni, linguaggi e fenomeni del mondo è implicata nell’affermazione che la semantica o è violenza, oppure è un’opinione.
Mi ripromettevo di chiamarlo per dirglielo, mi resterà il rammarico di non averlo fatto. L’ultima volta che ci siamo visti è stato qui a Ferrara, dopo il suo concerto in Sala Estense.

In Ho visto anche degli zingari felici la mia generazione si è riconosciuta: non solo perché diceva quello che eravamo, ma soprattutto perché diceva anche quello che avremmo potuto, dovuto essere. Era sempre due passi avanti, Claudio, anche quando sapeva giocare in versi con l’esistenza, o con l’assenza, di dio: ora di pranzo, lui si materializza, / si transustanzia in un / campari soda.

Sia lieve la terra ai poeti e ai comunisti che sanno aprire le finestre sbagliate

È vero che dalle finestre
non riusciamo a vedere la luce
perché la notte vince sempre sul giorno
e la notte sangue non ne produce,
è vero che la nostra aria
diventa sempre più ragazzina
e si fa correre dietro
lungo le strade senza uscita,
è vero che non riusciamo a parlare
e che parliamo sempre troppo.

È vero che sputiamo per terra
quando vediamo passare un gobbo,
un tredici o un ubriaco
o quando non vogliamo incrinare
il meraviglioso equilibrio
di un’obesità senza fine,
di una felicità senza peso.
È vero che non vogliamo pagare
la colpa di non avere colpe
e che preferiamo morire
piuttosto che abbassare la faccia, è vero
cerchiamo l’amore sempre
nelle braccia sbagliate.

È vero che non vogliamo cambiare
il nostro inverno in estate,
è vero che i poeti ci fanno paura
perché i poeti accarezzano troppo le gobbe,
amano l’odore delle armi
e odiano la fine della giornata.
Perché i poeti aprono sempre la loro finestra
anche se noi diciamo che è
una finestra sbagliata.

È vero che non ci capiamo,
che non parliamo mai
in due la stessa lingua,
e abbiamo paura del buio e anche della luce, è vero
che abbiamo tanto da fare
e non facciamo mai niente.
È vero che spesso la strada ci sembra un inferno
e una voce in cui non riusciamo a stare insieme,
dove non riconosciamo mai i nostri fratelli,
è vero che beviamo il sangue dei nostri padri,
che odiamo tutte le nostre donne
e tutti i nostri amici.

Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l’amore
e rotolarsi per terra,
ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.

Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l’amore
e rotolarsi per terra,
ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.

Siamo noi a far ricca la terra
noi che sopportiamo
la malattia del sonno e la malaria
noi mandiamo al raccolto cotone, riso e grano,
noi piantiamo il mais
su tutto l’altopiano.
Noi penetriamo foreste, coltiviamo savane,
le nostre braccia arrivano
ogni giorno più lontane.
Da noi vengono i tesori alla terra carpiti,
con che poi tutti gli altri
restano favoriti.

E siamo noi a far bella la luna
con la nostra vita
coperta di stracci e di sassi di vetro.
Quella vita che gli altri ci respingono indietro
come un insulto,
come un ragno nella stanza.
Ma riprendiamola un mano, riprendiamola intera,
riprendiamoci la vita,
la terra, la luna e l’abbondanza.

È vero che non ci capiamo
che non parliamo mai
in due la stessa lingua,
e abbiamo paura del buio e anche della luce, è vero
che abbiamo tanto da fare
e che non facciamo mai niente.
È vero che spesso la strada ci sembra un inferno
o una voce in cui non riusciamo a stare insieme,
dove non riconosciamo mai i nostri fratelli.
È vero che beviamo il sangue dei nostri padri,
che odiamo tutte le nostre donne
e tutti i nostri amici.

Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l’amore
e rotolarsi per terra.
Ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.

Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l’amore
e rotolarsi per terra.
Ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.

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