Fiscaglia. Non ci sono responsabili ed è probabile che il giudice abbia accolto la tesi del gesto volontario per la morte di Ornella Botti, che nell’aprile 2012 finì con l’auto nel Po di Volano in un punto da tempo privo di guardrail, in via Travaglio.
Gli imputati – l’ex sindaco di Migliaro, Marco Roverati e i tre assessori ai Lavori Pubblici che si sono succeduti tra 2004 e 2013, Massimo Uba, Roberto Uba e Daniele Frignani, sono stati assolti martedì mattina (10 luglio) perché il fatto non sussiste. La procura aveva chiesto l’assoluzione per gli assessori e la condanna a 8 mesi di reclusione per l’ex sindaco.
Si è trattato del secondo processo sulla vicenda, nato dall’assoluzione (divenuta definitiva) della dirigente Ilaria Simoni. L’accusa, in sostanza, è sempre stata quella di omicidio colposo per non aver eseguito i lavori di risistemazione del guardrail, tolto per eseguire dei lavori sull’argine. Simoni venne assolta perché si sarebbe tratto di una manutenzione straordinaria, per eseguire la quale non aveva competenza diretta, che invece spettava agli amministratori. Durante l’istruttoria del secondo processo, la versione è stata invece ribalta, con le difese che hanno mostrato come i soldi ci fossero e che quel tipo di lavoro potesse essere tranquillamente ricompreso tra i lavori di ordinaria amministrazione.
Ma, vista la formula usata, è molto probabile che il giudice abbia accolto l’altra tesi difensiva che escluderebbe qualsiasi responsabilità di terzi: quella del suicidio. La dinamica inusuale della caduta, il ritrovamento della borsetta della signora al centro della carreggiata, l’assenza di un tentativo di liberarsi delle cinture una volta finita in acqua e lo stato di salute della signora sono stati, in sintesi, gli argomenti sui quali le difese hanno spinto.
“Siamo soddisfatti perché questa vicenda è finita – afferma al termine dell’udienza l’avvocato Massimo Bissi, difensore dell’ex sindaco Roverati -. Penso che il giudice abbia accolto la nostra richiesta principale, ovvero che si sia trattato di un atto volontario”.
La rabbia è invece il sentimento che forse descrive meglio le figlie e il marito della signora Botti, che si sono costituite parte civile e che poi sono uscite dopo il risarcimento del danno offerto dall’assicurazione, chiamata a giudizio come responsabile civile. Non hanno però mai perso un’udienza, con la speranza, dopo 6 anni, di sentire la verità. Una verità che, per loro, non è arrivata: “Dopo due processi, improvvisamente la colpa non è di nessuno – affermano ai taccuini -. È un colpo al cuore. È sempre stato detto che i soldi non c’erano, poi viene fuori che c’erano”. La famiglia rigetta la tesi del suicidio, definendola un’illazione: “Abbiamo portato a testimoniare i medici, mia madre era curata, faceva una vita normalissima, era seguita, aveva la patente che rinnovava regolarmente e lunedì sarebbe andata a lavorare”, afferma una delle figlie, che osserva come la tesi nasca “da un fatto avvenuto dieci anni prima”. Ed è amara la conclusione: “Sei anni per sentirsi dire che il fatto non sussiste”.
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