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26 Maggio 2018
Una sequenza di dieci cappelle nell'isola di San Giorgio

Vatican Chapels, la Santa Sede entra nella Biennale di Architettura di Venezia

di Paola Forlani | 6 min

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Per la prima volta la Santa Sede, che rappresenta la Chiesa cattolica nella sua universalità, entra nello spazio della Biennale di Architettura di Venezia. E lo fa approdando su un’isola affascinante della Laguna, quella di San Giorgio, e penetrando nell’oasi di un bosco non attraverso rappresentazioni grafiche o modelli ma con una vera e propria sequenza di cappelle. Nel culto cristiano esse sono veri e propri templi, sia pure in forma minore rispetto alle cattedrali, alle basiliche e alle chiese. In esse sono inserite due componenti fondamentali della liturgia, l’ambone (o pulpito) e l’altare, cioè le componenti della Parola sacra proclamata e della Cena eucaristica celebrata dall’assemblea dei credenti.

Il numero delle cappelle è anch’esso simbolico perché esprime quasi un decalogo di presenze incastonate all’interno dello spazio: sono simili a voci fatte architettura che risuonano con la loro armonia spirituale nella trama della vita quotidiana. Per questo la visita alle dieci Vatican Chapels è una sorta di pellegrinaggio non solo religioso ma anche laico, condotto da tutti coloro che desiderano riscoprire la bellezza, il silenzio, la voce interiore e trascendente, la fraternità umana dello stare insieme nell’assemblea di un popolo, ma anche la solitudine del bosco ove si può cogliere il fremito della natura che è come un tempio cosmico. A precedere questa sfida c’è un emblema: è la <<Cappella nel bosco>> dell’architetto svedese Gunnar Asplund che, attraverso i suoi disegni progettuali, a distanza di quasi un secolo (1920) e da una ragione diversa, rievoca la costante ricerca dell’umanità nei confronti del sacro all’interno dell’orizzonte spaziale della natura in cui si vive.

Proprio per rappresentare questa <<incarnazione>> del tempio nella storia, il dialogo con la pluralità delle culture e della società e per confermare la <<cattolicità>>, cioè l’universalità della Chiesa, sull’isola di San Giorgio sono giunti architetti provenienti da origini ed esperienze diverse, dalla vicina Europa con la sua configurazione storicamente variegata al lontano Giappone dotato di radici religiose originali, dalla vivace spiritualità latino-americana a quella apparentemente più secolarizzata degli Stati Uniti, fino alla remota Australia che in realtà riflette la comune contemporaneità.

Alle spalle di questo ingresso della Santa Sede nella Biennale di Venezia c’è, però, un antefatto. Già nel 2013 e nel 2015 la Santa Sede era entrata con un padiglione in due edizioni della Biennale d’Arte proponendo un messaggio <<primordiale>> affidato all’<<In principio>> delle stesse Scritture Sacre ebraico-cristiane.

La scelta era netta ed esplicita e compiva un’inversione rispetto al passato recente. A partire dal secolo scorso, infatti s’era compiuto un divorzio lacerante tra arte e fede. Da un lato, l’arte aveva lasciato il tempio, l’artista aveva relegato sullo scaffale polveroso del passato la Bibbia, si era avviato lungo le strade <<laiche>> e secolari della modernità, rifuggendo spesso dal ricorso a figure, simboli, narrazioni, parole sacre. D’altro lato, la teologia si è rivolta quasi esclusivamente alla speculazione sistematica che crede di non aver bisogno di segni o metafore; anch’essa ha relegato nel deposito del passato il grande repertorio simbolico cristiano. In ambito ecclesiale si è ricorsi prevalentemente al ricalco di moduli, stili e generi delle epoche precedenti, o si è orientata all’adozione del più semplice artigianato, o, peggio, ci si è adattati alla bruttezza che imperversa nei nuovi quartieri urbani e nell’edilizia aggressiva, innalzando edifici sacri modesti, privi di spiritualità, di bellezza e confronto coi nuovi linguaggi artistici e architettonici che frattanto si stavano elaborando.

Ė da questa situazione che è rinato il desiderio di un nuovo incontro tra arte e fede, due mondi che nei secoli passati erano quasi sovrapposti e che erano divenuti invece reciprocamente estranei. Si tratta di un percorso certamente arduo e complesso che si nutre ancora di mutui sospetti ed esitazioni e persino di timori di eventuali degenerazioni. Ė un dialogo che in architettura ha già registrato tappe significative e che, a livello generale, è iniziato già a metà del secolo scorso non solo attraverso l’opera di teologi e di pastori ecclesiastici sensibili ma anche nella voce dello stesso magistero ufficiale della Chiesa, A partire da Paolo VI col suo incontro nel 1964 nella Cappella Sistina con gli artisti, per procedere poi con la Lettera a loro indirizzata nel 1999 da san Giovanni Paolo II, col nuovo incontro di Benedetto XVI nella stessa Cappella Sistina.

Il progetto per il Padiglione della Santa Sede alla XVI Mostra Internazionale di Architettura de La Biennale di Venezia deriva, come già ricordato, da un modello preciso, la “cappella nel bosco” costruita nel 1920 dal celebre architetto Gunnar Asplund nel Cimitero di Stoccolma.

Allo scopo di rendere il pubblico partecipe delle ragioni di questa scelta, il curatore Francesco Dal Co, ha fatto allestire uno spazio espositivo, che diventa il primo episodio che il visitatore incontra all’ingresso del Padiglione della Santa Sede, per la presentazione dei disegni e del plastico della “cappella nel bosco” di Asplund.

Con questo piccolo capolavoro, Asplund definì la cappella come luogo di orientamento, incontro, meditazione casualmente o naturalmente formatosi all’interno di un vasto terreno alberato, inteso quale fisica evocazione del labirinto percorso in vita e del peregrinare dell’uomo in attesa dell’incontro.

Questo medesimo tema è stato proposto ai dieci architetti invitati a costruire altrettante cappelle, riunite nell’area fittamente alberata che si trova all’estremità dell’isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, per formare, unitamente allo spazio espositivo riservato ai disegni di Asplund, il Padiglione della Santa Sede.

Per la nostra cultura è usuale identificare la cappella con un ambiente ricavato per ragioni di finalità diverse all’interno di spazi religiosi più ampi e per lo più preesistenti. La pratica all’origine di questa percezione ha prodotto numerosi modelli che hanno in comune il fatto essersi formati e di appartenere sempre a uno spazio altro, ovvero a un ambiente di culto, a una cattedrale, a una chiesa o più semplicemente ad un luogo individuato per aver accolto un accadimento inusuale, oppure per essere stato individuato come meta riconosciuta. In epoca moderna questi modelli hanno dato luogo al consolidarsi di un canone.

La richiesta rivolta agli architetti invitati a costruire il Padiglione della Santa Sede ha implicato, quindi, una sfida inusuale, poiché ai progetti è stato chiesto di confrontarsi con un tipo edilizio che non ha precedenti né modelli. Le cappelle che gli architetti hanno progettato, infatti, sono isolate e accolte da un ambiente naturale del tutto astratto, connotato unicamente dal suo emergere dalla laguna e del suo aprirsi sull’acqua. Nel bosco dove il “Padiglione Asplund” e le cappelle sono collocate non vi sono mete e l’ambiente è soltanto una metafora del pellegrinare della vita. Questa metafora, nel caso del Padiglione della Santa Sede, è ancora più radicale di quella configurata da Asplund, che costruì la sua cappella tra gli alberi, ma all’interno di un cimitero. Per queste ragioni gli architetti del Padiglione della Santa Sede hanno lavorato senza alcun riferimento ai canoni comunemente riconosciuti e senza poter contare su alcun modello di vista tipologico, come dimostra la varietà sorprendente delle loro opere che si possono ammirare nel loro splendore ed originalità.

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