Terre del Reno
21 Marzo 2018
Crolli Tecopress. Il pm: “Condanne per fissare il principio della sicurezza di lavoratori e costruzioni”. Chieste pene da 6 a 4 mesi per la morte di Gerardo Cesaro

Morti per il terremoto. La procura di Ferrara chiede di creare un precedente

di Daniele Oppo | 4 min

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“Questo processo non ha bisogno di pene epocali, ma di un’affermazione di penale responsabilità. Non siamo di fronte a criminali per cui evocare la carcerazione. Occorre non una condanna esemplare ma una condanna che fissi un principio per Ferrara e a livello nazionale: quello della tutela della sicurezza del luogo di lavoro e dei lavoratori e dell’utilizzo di concetti avveduti nella costruzione”. È la fine della requisitoria del pubblico ministero Ciro Albero Savino a spiegare fino in fondo il significato che ha assunto il processo – “di grande complessità e difficoltà” – per i crolli alla Tecopress durante il sisma del maggio 2012, quando morì l’operaio Gerardo Cesaro, colpito dal crollo di un muro a pochi passi dalla salvezza.

Una requisitoria con il chiaro intento non tanto di puntare il dito su qualcuno – pur nella personale responsabilità – quanto di indicare una strada quando si tratta di tutelare la vita umana nel luogo di lavoro: quella di agire in maniera preventiva, facendo tutto il possibile, tutto il necessario. Un processo, dunque per mettere, nelle parole del pm, “un piccolo tassello nella giurisprudenza nazionale”. Il motivo è ancora più chiaro se si guarda ad altri casi simili, come quelli avvenuti nel Modenese, dove i procedimenti per i crolli sono stati archiviati.

Anche per questo le richieste di pena effettive – tutte col beneficio della sospensione – sono state bassissime: 6 mesi per il patron Enzo Dondi e per la responsabile della sicurezza Elena Parmeggiani; 4 mesi per i due progettisti del capannone originario (anno 1992) Dario Gagliandi e Antonio Proni e per il collaudatore Modesto Cavicchi. Sottolineando per tutti la correttezza in sede processuale. Pene diverse per l’imputazione comune di omicidio colposo con profili di responsabilità diversi, che portarono inizialmente a una doppia inchiesta, poi riunificata in un unico procedimento.

E che sia un processo particolare lo dimostra forse anche il fatto – voluto o meno, casuale o meno – che i nomi di Dondi e Parmeggiani il pm li pronunci solo nella fase di richiesta di pena. Prima si riferisce solo indicandoli nella loro funzione di datore di lavoro e di responsabile per la sicurezza, quasi a tentare di spersonalizzare il processo: è il loro ruolo a contare e, infatti, il loro profilo di colpa – secondo l’accusa – è “prettamente normativo, di diritto”.

Il loro sbaglio è stato quello di non adeguare il capannone crollato e le relative misure di sicurezza al momento (il 2003 almeno, quando venne normata la zonizzazione sismica) e perfino prima, nel 2000, quando venne costruito un capannone con criteri antisismici, proprio di fianco – anzi, collegato – a quello crollato “come un castello di carte”. Un adeguamento strutturale (la ‘legatura’ travi-pilastri) che Parmeggiani avrebbe dovuto obbligatoriamente sollecitare, segnalando l’esistenza di un pericolo (adeguando anche il piano per affrontarlo), e Dondi realizzare a una cifra, calcolata a spanne dal consulente del pm, tra i 180mila euro (utile per salvare la vita di Cesari) e 600mila euro (che avrebbe preservato anche la produzione).

Per il pm, in sostanza, “va sanzionato il ‘lasciamo le cose come stanno’ quantomeno dopo il 2003”, perché “non è possibile evitare il terremoto, ma occorre ridurre al minimo il rischio per i lavoratori”, anche quando ancora non c’è un preciso obbligo di legge dal lato dell’adeguamento strutturale ma esiste comunque la conoscenza dell’esistenza concreta del rischio, cosa che per l’accusa la Tecopress aveva. Ecco allora la necessità di effettuare la ‘legatura’ delle travi – la cui assenza è, secondo il pm, la causa comune dei crolli durante il sisma – in modo che il sisma non potesse far crollare il capannone ma, al massimo, farlo “afflosciare” gradualmente, dando la possibilità e il tempo ai lavoratori – a Cesaro nel caso di specie – di salvarsi.

Per i tecnici il discorso è diverso. Secondo l’accusa non avevano effettuato alcuni controlli obbligatori già nel 1992, previsti da normativa del decennio precedente, che avrebbero permesso di verificare alcune mancanze strutturali (l’armatura delle forcelle) e portato a “un’attività di rinforzo” della struttura stessa, concedendo – forse – qualche secondo in più a Cesaro nella sua fuga. Ma, anche qui, la questione sembra quella trovare un punto fermo che valga per il futuro: già nel 1992 dovevano prevedere il massimo della sicurezza possibile, prevedendo dei collegamenti trave-pilastro in una struttura grande 3mila metri quadrati adibita a fonderia e che ospitava oltre cento dipendenti, comportandosi come un “agente modello”, che non guarda la prassi (vera o presunta, su questo c’è un contrasto tra le parti) ma la cosa migliore da fare, ovvero le buone pratiche costruttive (e anche su questo non mancano i contrasti interpretativi).

Le parti civili (moglie e due figli di Cesaro, rappresentati dagli avvocati Fabio Anselmo e Carlotta Gaiani) hanno ribadito la richiesta di riconoscimento delle responsabilità, in una battaglia strenuamente sostenuta per tutti questi anni anche affinché non avvengano più morti evitabili sul lavoro e si è rimessa alla valutazione del giudice per il risarcimento del danno per la morte del congiunto.

La prossima settimana, il 27 marzo, toccherà alle difese, ma con tutta probabilità servirà almeno un’altra udienza prima di arrivare alla sentenza da parte del giudice Vartan Giacomelli.

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