Recensioni
24 Febbraio 2018
Mostra fino al 24 giugno alla Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino

Renato Guttuso. L’arte rivoluzionaria nel cinquecentenario del ‘68

di Paola Forlani | 6 min

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Come potrò io, pittore del

XX secolo, pensare di essere

in una tradizione, di

misurarmi con gli artisti

del passato… Cosa dovremo

fare perché la modernità…

sia degna di diventare

antica”?.

Renato Guttuso, 1984

 

La GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino dedica una importante e mirata esposizione (aperta fino al 24 giugno) alla pittura di Renato Guttuso (Bagheria, Palermo 1911 – Roma 1987), presenza di forte rilievo nella storia dell’arte italiana del Novecento e figura nodale nel dibattito concernente i rapporti tra arte e società che, nel secondo dopoguerra, ha significativamente accompagnato un ampio tratto del suo cammino.

Curata da Pier Giovanni Castagnoli, con la collaborazione degli Archivi Guttuso, la mostra raccoglie e presenta circa 60 opere provenienti da importanti musei e collezioni pubbliche e private europee. Primeggiano alcune delle più significative tele di soggetto politico e civile dipinte dall’artista lungo un arco di tempo che corre dalla fine degli anni Trenta alla metà degli anni Settanta.

“Se io potessi scegliere un momento nella storia e un mestiere, sceglierei questo tempo e il mestiere di pittore” scriveva Guttuso nel numero de Il Selvaggio a lui dedicato.

Era il 1939 e quel tempo era quello del fascismo e della guerra imminente. Quanto al mestiere, era ancora una scelta ben poco remunerativa, al limite della povertà, e la sua pittura era quasi ignorata dalla critica ufficiale, e dalla committenza.

Acutamente avrebbe scritto Leonardo Sciascia in un testo per una mostra del 1974: “Guttuso è tanto più forte quanto più le condizioni sono difficili, i tempi pericolosi… Il suo essere pittore è una passione, come una febbre…”. E di furore e passione, di totale inerenza alla storia e alle sue contraddizioni, sono fatte la vita di Guttuso e la sua arte, che con la vita spesso si identifica al punto da non esserne distinguibile, a volte neppure a lui stesso. Una incandescenza emotiva, psicologica, espressiva e ideologica che ha prodotto un corpus artistico denso, diversificato e stratificato, che ha fatto Renato Guttuso attore, testimone, interprete del nostro tempo. La presenza di Guttuso nella storia e nell’arte del nostro paese non è quindi eliminabile, nel bene e nel male, quale che sia il giudizio estetico che se ne voglia dare, quale ne sia stato dato, tenendo tuttavia presente che tale presenza – per alcuni incombenza – si è svolta e ha assunto significato dal suo essere infine quella di un artista, di un grande pittore. Già lo scriveva Carlo Levi nel 1969: “… tutta la politica di Guttuso è pittura, ritorna alla pittura: ne è sostanza e sostegno”.

Quelle che ad alcuni apparvero battaglie ideologiche alle quali l’arte veniva sacrificata, per cecità o peggio opportunismo, in Guttuso hanno sempre fatto tutt’uno con quella sua “idea di pittura” nella quale moralità e comunicazione, rigore di stile e intensità emotiva erano inscindibili e necessari. Questo Guttuso intendeva quando rifiutava il termine di “neorealismo” per i suoi quadri del dopoguerra e rivendicava per essi quello di “realismo” sulla scia di Rembrandt, Delacroix, Courbet, il quale “amava le cose per quelle che sono…”. Le cose, gli uomini, i fatti e i gesti. Questi in fondo saranno i soggetti di Guttuso per tutta la vita, pur nella diversità dei momenti e degli stati d’animo. In tal senso Guttuso poteva, con lecito orgoglio, scrivere: “Ringrazio me stesso per aver avuto il coraggio di fare alcuni brutti quadri”. Ma non soltanto brutti quadri ha avuto il coraggio di scegliere le strade meno facili e meno consolatorie fin da ragazzo, quando tra i pittori in auge sceglieva i meno ossequienti all’arte ufficiale di “Novecento”, De Chirico, Morandi, Carrà, quando, a Roma, nel cuore stesso dell’ufficialità della Quadriennale, si avvicina ai ribelli della Scuola romana, a Mafai, a Scipione.

Nell’ottobre del 1967, cinquantesimo anniversario della rivoluzione d’ottobre, Renato Guttuso scriveva su Rinascita, rivista politico-culturale del Partito Comunista Italiano, un articolo intitolato Avanguardie e Rivoluzione, nel quale il pittore riconosceva alla rivoluzione il titolo inconfondibile e meritorio di essere stata il fondamento di una nuova cultura, con la quale profondamente sentiva di identificarsi e che lo induceva a chiudere il suo scritto con l’esplicita professione di fede: “L’arte è umanesimo e il socialismo è umanesimo”.

Guttuso era stato, a partire dagli anni della fronda antifascista e tanto più nel secondo dopoguerra, un artista che, come pochi altri in Italia, si era dedicato con perseverante dedizione e ferma convinzione a ricercare una saldatura tra impegno politico e sociale ed esperienza creativa, nella persuasione che l’arte, nel suo caso la pittura, possa e debba svolgere una funzione civile e sia costitutivamente dotata di una valenza profondamente morale.

A poco più di cinquant’anni dalla pubblicazione dell’articolo e nella ricorrenza del cinquantenario del ’68, la GAM di Torino si propone di riconsiderare il rapporto tra politica e cultura, attraverso una mostra dedicata all’esperienza dell’artista siciliano, raccogliendo alcune delle sue opere maggiori di soggetto politico e civile.

A partire da un dipinto quale Fucilazione in campagna del 1938, ispirato alla fucilazione di Federico Garcia Lorca, che a buon diritto può essere assunto a incunabolo di una lunga e ininterrotta visitazione del tema delle lotte per la libertà, per giungere alla condanna della violenza nazista, nei disegni urlati e urticanti del

Got mit uns (1944) e successivamente, dopo i giorni tragici della guerra e della tirannia, alle intonazioni di una reinventata epica popolare risuonanti in opere nuove per stile e sentimento come: Marsigliese contadina (1947) o Lotta di minatori francesi (1948). Un grande, ininterrotto racconto che approda, negli anni Sessanta a risultati di partecipe testimonianza militante, come in Vietnam (1965) o a espressioni di partecipe affettuosa vicinanza, come avviene, nel richiamo alle giornate del maggio parigino, con Giovani innamorati (1972) e in cui si condensa la storia delle lotte e delle speranze di un popolo e le ragioni della militanza di un uomo e di un artista.

Nel secondo dopoguerra negli ambienti della cultura di sinistra si discuteva tra avanguardia formalista e realismo figurativo. Ci si chiedeva quale fosse più rivoluzionaria e quale più reazionaria. Oggi paradossalmente, nell’era della realtà aumentata e della virtualità, la pittura di Guttuso può sembrarci tanto reale e materica quanto il mondo che stiamo perdendo.

A fronte dell’antologia di tali dipinti e in dialogo con essi, la mostra offre anche un repertorio variegato di opere di differente soggetto: ritratti e autoritratti, paesaggi, nature morte, nudi, vedute di interno, scene di conversazione. Quadri tutti coevi ai tempi di esecuzione dei dipinti di ispirazione politica e sociale, selezionati con il proposito di offrire indiscutibile prova dei traguardi di alta qualità formale conquistati da Guttuso nell’esercizio di una pittura che – afferma il curatore Pier Giovanni Castagnoli – per comodità, potremmo chiamare pura, con l’intendimento di saggiare, attraverso il confronto dei diversi orizzonti immaginativi, l’intensità dei risultati raggiunti su entrambi i versanti ideativi su cui si è esercitato il suo impegno di pittore e poter consegnare infine all’esposizione, pur nel primato assegnato al cardine tematico su cui la mostra si incerniera, un profilo ampiamente rappresentativo della ricchezza dei registri espressivi presenti nel ricchissimo catalogo della sua opera e della poliedrica versatilità del suo estro creativo.

I riferimenti a Michelangelo, a Raffaello, a Caravaggio, a Botticelli, la trasformazione in senso allegorico e sapienziale delle sue ultime grandi tele ne sono la prova e il frutto. Dai Funerali di Togliatti del 1972 all’estremo Il bosco d’amore del 1984 non ci sono più fratture, scarti, contraddizioni, ma soltanto un occhio lucido e una composta malinconia.

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