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1 Febbraio 2018
L'esposizione fa vivere le opere dell’artista americano a Bologna in Pinacoteca fino al 25 febbraio

‘Party of Life’, mostra su Keith Haring

di Paola Forlani | 6 min

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I suoi omini radioattivi e danzanti, i suoi angeli, i suoi cani, i suoi cuori sono diventati delle icone senza tempo che hanno lasciato la strada per entrare prima nelle gallerie d’arte e poi, come motivi decorativi, su oggetti di vita quotidiana. Ma Keith Haring dietro a quel mondo colorato veicolava messaggi sociali e invitava a lotte contro il perbenismo. Lo si può ammirare nella mostra “Party of Life”, organizzata da Contemporary Concept, fino al 25 febbraio, mostra che fa vivere le opere dell’artista americano a Bologna in Pinacoteca, aperta in occasione di Arte Fiera fino al 25 febbraio, con una sessantina di opere provenienti da collezioni pubbliche e private, a cura di Diana Di Nuzzo.

Keith Haring nacque il 4 maggio 1958 a Reading, in Pennsylvania, da Allen e Joan Haring, primogenito di quattro figli. La sua famiglia si trasferì a Kutztown pochi anni dopo la nascita, e fu qui che trascorse gran parte della sua infanzia; ancora fanciullo rivelò una forte inclinazione per il disegno, apertamente incoraggiato dal padre Allen, il quale aveva per tempo intuito le inclinazioni e il talento artistico del figlio.

Ricorda Haring: << Mio padre realizzava per me personaggi dei cartoni animati, e questi erano simili a come disegnavo io – con un’unica linea e un contorno fumettistico>>.

Furono proprio i personaggi dei fumetti come di Walt Disney e di Dr. Seuss a esercitare su lui un’influenza duratura. In ogni caso, divenuto adolescente, Haring diede prova di temperamento ardente: era insofferente ai freni, e non di rado consumava droghe e alcool con amici. Malgrado ciò, egli continuò a coltivare la propria passione per il disegno; decisiva, in tal senso, fu la visita al museo Hirshhon di Washington D.C., dove era esposta la produzione di Andy Warhol.

Terminati gli studi secondari nel 1976, Haring si iscrisse all’Ivy School of Professional Art di Pittsburgh, dove, persuaso dai genitori, iniziò a frequentare le lezioni di grafica pubblicitaria. Ben presto, però, il giovane Keith capì che non era quella la sua strada, e abbandonò il corso dopo due semestri; con l’allontanamento dagli studi accademici affrontò un periodo di nera miseria e di attività spuria e si adattò a qualsiasi lavoro per sopravvivere. L’elasticità d’orario di questi mestieri (importante quello del cuoco in caffetteria, dove espose per la prima volta i suoi disegni) gli permise di fare copiose letture: proprio in questi anni, infatti, Haring divorava le opere monografiche su Jean Dubuffet, Suart Davis, Jackson Pollock, Paul Klee, Alfonso Ossorio e Mark Tobey. Nel 1977, poi, entrò in contatto con un artista che gli suscitò una grande emozione, e la <<nuova spinta e confidenza>> necessaria per assecondare la propria vocazione: si tratta di Pierre Alechinsky, in quell’anno protagonista di una mostra al museo d’arte di Pittsburgh. Giunto un anno dopo Haring, forte della conoscenza estremamente variegata raggiunta nel campo dell’arte, organizzò la sua prima mostra personale riscuotendo un enorme successo. Nel 1979 stringe amicizia con un artista emergente di Brooklyn: Jean-Michel Basquiat, col quale rimase amico fino alla morte di quest’ultimo avvenuta due anni prima della sua.

Intanto da Pittsburgh si trasferì a New York, alla ricerca di nuove sfide e di artisti con idee e interessi affini; fu proprio in questo periodo, inoltre, che iniziò a diventare consapevole del proprio orientamento omossessuale, che avrebbe poi riconosciuto apertamente in seguito. Nella grande Mela Haring potè seguire i corsi della School of Visual Art (SVA), dove apprese i rudimenti del disegno, della pittura e della scultura; in questo periodo crebbe l’amicizia e collaborazione con Kenny Scharf e Jean.Michel Basquiat e realizzò inoltre diverse opere, fondendo le influenze esercitate dal poster Truisms di Jenny Holzer con la tecnica di Williiam S. Burroughs e Brion Gysin.

A New York il giovane pittore si divideva tra un’intensa attività di studio e gli svaghi concessi da una grande città: Haring, in particolare, frequentò assiduamente il Club 57, rendez-vous assai popolare tra gli artisti, gli attori e i musicisti di Manhattan.

Ormai ben inserito nella scena artistica newyorchese, Haring decise di non proseguire i propri studi alla Scool of Visual Art, rinnegando definitivamente la possibilità di conseguire una laurea (che gli sarà consegnata post mortem nel 2000) Intanto, essendo insofferente alle forme espressive e ai sistemi di diffusione artistica tradizionali, per esprimere la propria vocazione Haring scelse la scena urbana cittadina, riconoscendo nel tessuto metropolitano di New York un luogo ricco di fermenti e di indirizzi. Fu proprio sotto l’egida del graffitismo che Haring iniziò a definire la propria identità artistica, divenendo gradualmente consapevole dell’originalità delle proprie creazioni grafiche; celebre l’icona del cane angoloso che abbaia, immagine di vitalità per eccellenza.

Nel frattempo, nel giugno 1980 Haring venne invitato a partecipare al Times Square Show, la prima mostra artistica dedicata allo spettro dell’arte underground statunitense; qui ebbe l’opportunità di confrontarsi e stringere amicizia con i più significativi esponenti della street art, tra cui Lee Quinones, Fab Five Freddy e Futura 2000. Haring subì indubbiamente il fascino e l’influsso di questi ultimi, e non nascose affatto il proprio ardente entusiasmo per il graffitismo.

Successivamente, forse per caso, forse per scelta, Haring decise di esprimere il proprio estro artistico intervenendo sugli spazi pubblicitari vuoti della metropolitana di New York, che divenne un <<laboratorio>> pubblico dove sperimentare infinite soluzioni.

Intanto, Haring iniziò ad acquistare una fama sempre più solida, confermata dal successo riscosso dalla mostra personale che organizzò nell’ottobre 1982 con la collaborazione del gallerista Tony Dhafrazi, al cui evento parteciparono tutti gli artisti e galleristi più famosi della Grande Mela. L’esibizione arricchì notevolmente la fama di Harring, ormai divenuto noto anche in Europa: in questo periodo l’artista si recò in Italia, in Germania, nei Paesi Bassi, in Belgio e in Gran Bretagna, lasciando segni di sé e della propria arte nei paesaggi urbani visitati.

Haring consacrò definitivamente il proprio talento nell’aprile del 1986 con l’inaugurazione a SoHo del Pop Shop; si tratta di un punto di vendita di gaget e magliette ritraenti le sue opere, così da mettere il proprio operato a disposizione di tutti.

La salute di Haring, a causa dell’AIDS, si fece via via sempre più malandata, fino a quando gli fu persino impossibile dipingere. L’ultima opera pubblica che eseguì fu Tuttomondo, sulla parete esterna del convento di Sant’Antonio a Pisa; si tratta dell’ultimo inno alla vita di Haring, e di uno dei progetti più importanti che abbia mai fatto. Malgrado la salute declinante, inoltre, Haring fondò la Keith Haring Fundation, che si propone di continuare la sua opera di sostegno alle organizzazioni a favore dei bambini e della lotta contro l’AIDS.

Keith Haring, morì il 16 febbraio 1990 a New York a causa delle complicazioni legate all’AIDS: aveva solo trentun anni.

La versatilità delle opere di Haring trascende i mezzi espressivi tradizionali, tanto che per dare sfogo al proprio inesauribile estro artistico egli non esitò a sfruttare qualsiasi elemento avesse a portata di mano: le sue opere sono tracciate sui muri, carrozzerie di automobili, teloni in vinile, capi di abbigliamento, carta plastica recuperata dagli scarti, e tele.

<<Mi è sempre più chiaro che l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare>>

Keith Haring

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