Cronaca
13 Gennaio 2018
Il commercialista Schincaglia si difende nel processo che lo vede accusato di truffa e appropriazione indebita a danno dei suoi ex clienti

“Spiegavo come evadere le tasse, ma erano informati dei rischi”

di Daniele Oppo | 5 min

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«I clienti mi dicevano: “Queste tasse sono troppe, non le voglio pagare, come facciamo?” E io gli dicevo: fai così…».

La strategia del commercialista Riccarco Schincaglia è chiara: ammettere di aver aiutato i suoi ex clienti a evadere il fisco e scrollarsi di dosso le loro accuse nel processo che lo vede imputato per aver truffa e appropriazione indebita.

L’udienza di venerdì davanti al giudice Debora Landolfi è quasi tutta dedicata a lui, il ragioniere accusato di aver defraudato il fisco e trattenuto circa 500mila euro dai suoi clienti, facendo loro credere che con quei soldi pagava gli F24 per le tasse, che ha scelto di sottoporsi all’esame.

La sua posizione è netta: «Sapevo che l’istigazione all’elusione è una violazione delle norme deontologiche. Lo facevo perché, con il carico fiscale che c’è in Italia, il cliente mi faceva pressioni per andare avanti», risponde a uno dei legali che lo interroga, chiarendo anche che quello era il suo modo per conservare una buona clientela tra aziende medio-piccole e non rischiare che si rivolgessero ad altri commercialisti. «I clienti erano tutti informati del rischio che correvano, anche dal punto di vista penale quando superavano i 50mila euro, spiegavo loro come mettersi al riparo dalle contestazioni, tanto qualcuno ha anche costituito un fondo patrimoniale per salvare i suoi beni», afferma ancora Schincaglia.

In sostanza, la sua spiegazione è che lui indicava la via da seguire, suggerendo di aumentare fittiziamente le spese o inserire compensazioni inesistenti in modo da poter vantare crediti o abbassare l’importo delle tasse oppure per poter ottenere il Durc e lavorare con la pubblica amministrazione; aiutava i clienti molto digiuni di pratiche fiscali nella compilazione dei moduli – senza verificare l’effettiva corrispondenza dei dati inseriti alla realtà – e li pagava per loro conto tramite il suo home banking personale.

Era, come per sua stessa ammissione, la mente e la mano di un sistema di elusione ed evasione fiscale. Mente e mano, ma la responsabilità sulla veridicità dei numeri la lasciava ai clienti: “Erano tutti informati e facevo sottoscrivere una dichiarazione”, così da esonerare se stesso da eventuali contestazioni. Accetta sì una quota di responsabilità, quella di aver creato tutte le condizioni per ingannare il fisco, ma non di quella di aver truffato i clienti o essersi impossessato indebitamente delle cifre da loro consegnate, che dovevano servire per pagare le tasse e che invece, secondo le sue affermazioni: erano solo i compensi per la sua attività di consulenza.

Una consulenza cara – “perché seguire i convegni e consultare le banche dati per avere le mie conoscenze costa un sacco di soldi” – che, spiega, si faceva pagare con versamenti mensili fissi “anche se in quel mese non ci incontravamo”, più una quota variabile dipendente dal fatturato e dal tipo di attività richiesta. A un’azienda – il cui titolare è parte civile nel processo – prendeva 500 euro di fisso mensile più una percentuale tra il 6 e l’8% del fatturato: 90mila euro a fine anno. A un’altra, piccola, prendeva 80 euro mensili, più 10-15% del fatturato.

Alcuni avvocati mostrano però documenti: assegni e ricevute “informali” che non corrispondono mai. In un caso, ad esempio, Schincaglia riceve un assegno da 5mila euro, ma qualche giorno dopo emette una ricevuta per soli 500 euro. Ci vuole un po’ perché possa spiegare la discrepanza, poi alla fine cede: “Si vede che avrò fatto del nero. Sono disordinato, non mantengo bene la mia contabilità ma la tengo per gli altri”. Di nuovo ammissione di colpe, diverse però da quelle per cui è imputato, anzi a dimostrazione che in questo processo è lui la vittima di clienti che prima “vengono per evadere le tasse” e poi, una volta arrivate le cartelle esattoriali, lo scaricano e lo denunciano.

Valutarne la credibilità sarà ovviamente compito del giudice.

Il processo nasce da un’indagine della Guardia di Finanza datata 2014 e scaturita dagli accertamenti eseguiti dall’Agenzia delle Entrate che aveva notato un numero elevato di F24 presentati da alcune persone o società in cui le dichiarazioni presentavano una compensazione tra crediti Iva e altri importi a debito dovuti allo Stato. Sempre l’Agenzia scoprì che questi F24 erano tutti riconducibili a posizioni assistite da un unico commercialista: il ragionier Schincaglia. Qui intervennero le Fiamme Gialle e fecero un controllo sui conti correnti riconducibili al commercialista, tre in particolare: uno a suo nome come professionista, uno intestato alla sua società EtaBeta e quello della sua compagna. Incrociando i dati scoprirono che gli F24 sotto osservazione sono stati pagati tramite i conti correnti di Schincaglia, ma non risultavano compilati da lui nella sua funzione di intermediario (mancava il codice identificativo negli F24). Per questo all’Agenzia delle Entrate non risultava fosse lui ad aver “compilato” le compensazioni, ma che queste fossero state effettuate direttamente dai contribuenti. Secondo quanto emerso nel processo, il numero di operazioni tra 2008 e 2012 è altissimo: 3mila F24 con circa 4 milioni di imposte messe a compensazione e 1,8 milioni di euro (più 140mila euro versati in contanti) transitati sui suoi conti, provenienti dai clienti.

L’Agenzia contattò alcuni clienti per renderli edotti della loro posizione reale nei confronti del fisco, per lo più enormemente debitoria. Uno di questi, un artigiano di Porotto, si suicidò nel 2013 dopo essersi visto recapitare una cartella esattoriale da 80mila euro.

Il processo riprenderà a fine febbraio, con i testimoni chiamati dalla difesa.

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