Attualità
23 Novembre 2017
Un dibattito sul ruolo della donna nell'Islam riapre la domanda: fino a che punto possiamo far convivere valori opposti nella stessa società?

La tolleranza non serve a nulla se diventa indifferenza

di Ruggero Veronese | 5 min

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A che punto siamo con l’integrazione delle comunità straniere in Italia, o anche solo a Ferrara? A un punto morto. Probabilmente molto più indietro rispetto a 20 o 30 anni fa. Popoli e culture che condividono al massimo l’amministratore di condominio, tenuti in precario equilibrio dalla più imperfetta delle virtù: la tolleranza.

Se ci pensate bene, il verbo ‘tollerare’ non ha un’accezione positiva. Indica il sopportare in silenzio qualcosa che in realtà ci fa schifo. Si può tollerare un datore di lavoro bastardo, perché alla fine del mese abbiamo bisogno dello stipendio, o tollerare lo shopping con la fidanzata, ma questo non significa che ne saremo entusiasti. Anzi, è possibile che prima o poi – a forza di tollerare – manderemo a quel paese tutti quelli che per anni abbiamo sopportato di malavoglia. Questo perché la tolleranza, senza reale rispetto reciproco e condivisione di obiettivi comuni, è forse la più inutile e ipocrita tra tutte le virtù.

Penso ai limiti e per certi versi all’abuso della tolleranza dopo una discussione avuta negli ultimi giorni sul ruolo della donna nella cultura islamica. È iniziata da un post su Facebook di Hassan Samid, giovane presidente del centro islamico di Ferrara:
Poco fa un incontro di formazione con ragazzi del servizio civile, si parlava di Islam.
Una studentessa camerunense: ” io NON sono musulmana, ma non credo nell’uguaglianza uomo-donna. Anche se dovessi diventare medico ad un uomo porterò sempre un rispetto particolare.” 😂😱
diamole subito una medaglia!“.

Per dirla in maniera molto franca e diretta, a me sembra un messaggio orribile. Si legittima un ruolo di sudditanza della donna rispetto all’uomo per questioni innate, prestabilite e immutabili. Credo che Hassan sottovaluti quanto, a causa di dichiarazioni di questo genere, migliaia di uomini schifosi traggano giustificazione per atti di violenza e dominio sulle donne tra le mura domestiche. O anche solo per farsi fare i massaggi da mogli che invece vorrebbero uscire con le amiche. Per la società italiana e occidentale, che ha impiegato secoli per superare (e nemmeno ci è riuscita del tutto) il preistorico dominio del patriarcato, è un passo indietro inaccettabile.

Lo dovrebbe essere soprattutto per chi – guardo soprattutto a sinistra – dal ‘68 a oggi ha parlato di emancipazione femminile, diritti delle donne o laicità dello stato, ma che oggi si trova in particolare imbarazzo nel criticare alcuni aspetti molto controversi di alcune culture che dovremmo cercare di integrare in Italia. La ragione non è un mistero: criticando un immigrato si dà ragione a Salvini, si scopre il fianco alla destra, si fomenta il razzismo sottocutaneo della popolazione. Per un politico di sinistra significa stare tra l’incudine e il martello: teme che ogni sua critica venga strumentalizzata, quindi rinuncia a criticare. Si accontenta di una tiepida, inutile e retorica tolleranza e fa finta di non accorgersi dell’enorme tensione interculturale nella nostra società.

Fortunatamente non tutti son così. Dal post di Hassan si è innescato un corposo dibattito che – salvo poche eccezioni – ha visto una enorme spaccatura tra stranieri e italiani, e soprattutto italiane. Varie ragazze ferraresi sono intervenute per criticare o punzecchiare il presidente del centro islamico, sostenuto invece da molte ragazze musulmane che rivendicavano una propria libertà di scelta. Il dibattito, pur restando civile e ironico, ha comunque messo in luce una distanza enorme e difficilmente colmabile tra l’ottica islamica più conservatrice e quella occidentale progressista.

Non vorrei entrare, qui e ora, nel dibattito storico-filosofico-religioso-politico sul ruolo della donna nell’Islam, o su quanto possano essere libere alcune scelte personali come il velo o la sottomissione all’uomo, dopo che si è cresciuti sotto costante condizionamento familiare, culturale e religioso. Secondo me non sono scelte veramente libere, secondo altri sì. Ma il punto è un altro: se su questi argomenti non cominciamo a ragionarci davvero, prendendoli di petto, a volte anche col rischio di urtare qualche sensibilità, arriveremo a un punto in cui la nostra società sarà sempre più frazionata e divisa in gruppi che credono in valori opposti. Incompatibili. Con centinaia di questioni in sospeso mai chiarite. Persone che dietro a una patina di tolleranza politica nascondono rancori, rivalità, odi religiosi e razziali. Che tra le mura domestiche si comportano in modi che il vicino di pianerottolo giudicherebbe immorali e talvolta criminali. Il contrario di una società coesa e serena.

My Stealthy Freedom

Questo è esattamente il punto dove si sta andando a schiantare la sinistra italiana. Quando qualche mese fa ho intervistato Debora Serracchiani a una festa dell’Unità, le chiesi se sarebbe d’accordo con una legge per il divieto al burqa, come in Francia. Come risposta ho avuto qualche minuto di vaghi discorsi sull’importanza del rispetto tra i popoli, ma non quel ‘sì’ o ‘no’ a cui puntavo, che è poi ciò che aspetta ogni elettore indeciso. Questo è esattamente il punto dove va a morire la sinistra italiana.

Per quanto riguarda quella ferrarese, che viaggia sparata contro lo stesso muro, consiglierei di iniziare a definire esattamente quale tipo di immigrazione e integrazione desiderano nella nostra città, e lavorare di conseguenza. I rappresentanti delle comunità straniere rispecchiano valori compatibili con quelli della società italiana? Se la risposta è negativa – e talvolta lo è – occorre incalzare e stimolare un cambiamento o perlomeno un dibattito in quella comunità. Evitare che si autoghettizzi e diventi un corpo estraneo alla città. Aiutare e supportare quelli al suo interno che magari adesso sono in minoranza, ma che possono aiutare a diffondere messaggi compatibili con il contesto in cui sono calati ora: quello di una nazione laica e con alle spalle decenni di lotte per i diritti civili. Una nazione che ora deve anche imparare a parlare chiaro alle comunità immigrate, definire con esattezza cosa ci si aspetta da loro e pronta a premiarli con una maggiore integrazione e più partecipazione alla vita politica e sociale. Perchè non è tollerandoci di malavoglia quando ci incrociamo sul pianerottolo che diventeremo un popolo unito.
Altrimenti smettiamola di parlare di tolleranza e cominciamo a usare un termine molto più adatto: indifferenza.

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