Cento
1 Novembre 2017
Uno dei medici imputati per la morte di Giuseppe Mortilli ha spiegato di aver fatto tutto ciò che poteva per salvarlo e il perché non capì subito che fosse uno shock anafilattico

Morì al poliambulatorio. Il medico: «Fatto tutto il possibile per tenerlo in vita»

di Daniele Oppo | 4 min

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«In tutta coscienza, ritengo di aver fatto tutto quello che era umanamente e scientificamente possibile per mantenerlo in vita». È quanto ha affermato Emmanuele Vece, uno dei due medici a processo per la morte dell’imprenditore Giuseppe Mortilli nel poliambulatorio “Villa Verde” il 24 marzo 2015.

Vece – difeso dall’avvocato Michele Ciaccia – ha accettato di sottoporsi all’esame e raccontare per la prima volta al pm Giuseppe Tittaferrante come andarono le cose quel tragico giorno e, soprattutto, perché non intervenne somministrando dell’adrenalina come previsto in caso di shock anafilattico. Mortilli infatti morì per arresto cardiaco a seguito di anafilassi scatenatasi dopo la somministrazione di un antibiotico da parte di Vece – che più volte ha sottolineato il suo rapporto di amicizia con il paziente -, per combattere febbre e altri sintomi che stavano colpendo l’imprenditore dopo un’operazione all’uretra. Era il terzo antibiotico che veniva usato a causa dell’inefficacia degli altri due.

Poco dopo la somministrazione, Mortilli – che aveva la febbre oltre i 38° gradi – forse avvertì un primo malore e andò in bagno dove vomitò. Al suo rientro nell’ambulatorio la fidanzata richiamò l’attenzione di Vece – impegnato a rispondere al telefono dell’ambulatorio – in merito allo stato di salute del paziente e Vece subito si attivò, notando uno stato di evidente affaticamento. «Ho pensato a una crisi lipotimica», cioè a  uno svenimento, ha spiegato l’imputato, «poi ho rilevato i parametri vitali: il polso era debole ma presente e aveva un po’ di difficoltà a respirare. Era un paziente obeso e non ho pensato subito allo shock, anche per via dell’anamnesi negativa e per il fatto che non avesse segni cutanei che si manifestano nell’85% dei casi di shock anafilattico».

Notando che le cose peggioravano, si fece aiutare dalla fidanzata a stendere il paziente per terra e nel frattempo chiamò aiuto. Dopo poco accorse il dottor Roberto Biscione dall’ambulatorio accanto – anche lui imputato, difeso dall’avvocato Marco Linguerri – che chiamò il medico anestesista mentre Vece allertava il pronto soccorso. Nel frattempo partirono con le manovre per la rianimazione cardio-polmonare, dandosi il cambio.

Il tutto – secondo il racconto – nel giro di un minuto o poco meno, troppo poco per valutare nel loro insieme tutti quei sintomi «aspecifici» che potevano essere uno shock anafilattico così come altre situazioni. «Io mi sono trovato di fronte a un arresto cardiaco e pensavo a mantenere il circolo, non ho avuto il tempo di fare un’analisi differenziale». Alle contestazioni del pm sulla mancata o tardiva diagnosi dello stato di shock, il medico ha risposto spiegando che quella fosse «una sequenza atipica, mai vista una reazione anafilattica che si concretizza in un arresto cardiaco in 60 secondi o meno. In quel tempo io non sono riuscito a diagnosticarlo e non so se sia umanamente possibile». E, comunque, «l’arresto cardiaco non mi dava margine, dovevo pensare a sostenere il circolo».

C’è anche una questione ulteriore. Anche se avesse diagnosticato lo shock, all’arrivo del carrello per le urgenze l’imprenditore era già in arresto cardiaco e il carrello non conteneva l’adrenalina, il presidio salvavita in questi casi, conservata – vista la sua facile deperibilità – in un frigorifero. Il medico avrebbe comunque potuto solo fare una iniezione intramuscolare che, ha spiegato Vece, «ha senso solo in una situazione con circolo», esclusa in un arresto cardiaco. L’iniezione per via endovenosa praticabile in quelle condizioni, come emerso dal processo, è invece specializzazione del medico anestesista, formato per una rianimazione avanzata. Ma, come rilevato dallo stesso professionista intervenuto e ascoltato come testimone, al suo arrivo (dopo circa 3-4 minuti) la situazione era già ampiamente compromessa e trovare una via periferica era particolarmente difficile in quel paziente (che era obeso), in quello stato.

Per l’altro medico imputato – anche lui sentito in udienza – l’ipotesi accusatoria sembra essere molto, molto più rarefatta: è emerso chiaramente dal processo che il suo intervento avvenne solo in aiuto del collega in difficoltà che, peraltro, nella concitazione del momento non ebbe il tempo di riferirgli di aver somministrato poco prima un antibiotico al paziente.

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