L'inverno del nostro scontento
21 Giugno 2017

Sergio Altieri, il narratore dell’apocalisse

di Girolamo De Michele | 4 min

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Difficile sintetizzare, dopo il fulmine a ciel sereno della sua morte, la poliedricità di Sergio (in arte Alan D.) Altieri. Direttore delle collane da edicola Mondadori (Giallo, Urania, ecc.), sceneggiatore con importanti collaborazioni – due fra tutte: Michael Cimino per L’anno del dragone e David Lynch per Blue Velvet – traduttore (Hammett, Lovecraft, e soprattutto Le Cronache del ghiaccio e del fuoco di George R. R. Martin).

E soprattutto narratore di razza, maestro indiscusso del genere apocalittico che aveva declinato nelle forme del romanzo storico e della fantascienza, ma anche della saggistica, con spericolate narrazioni della crisi dell’economia globale sulla webzine Carmilla (diretta da Valerio Evangelisti, suo fraterno amico), Amerikadämmerung (2008) e Death Economy (2011), nelle quali il suo peculiare taglio scritturale, che forzava e sbrecciava la sintassi disseminandone all’interno mine espressive, agiva di concerto con una lettura nichilistica della crisi globale che molto doveva alle analisi dei primi Anni Zero di Sbancor.

Far esplodere il presente, mandarlo in pezzi, seguirne i relitti in volo, come nella famosa scena di Zabriskie Point: Sergio Altieri lo ha fatto in tutta la sua produzione letteraria, i cui vertici sono due testi solo in apparenza distantissimi: la trilogia Magdeburg, ambientata negli anni 1629-31 della Guerra dei Trent’anni, e la trilogia (il terzo volume uscirà postumo) Terminal War.
In realtà Magdeburg, costata all’autore 15 anni di lavoro, si immergeva, con intento archeologico, in un passato che veniva svelato non solo simile al nostro presente, ma propedeutico alla comprensione del futuro che stiamo costruendo: un futuro narrato, estremizzando e smozzicando la costruzione paratattica per esprimerne l’assenza di relazioni sociali, nei primi volumi della trilogia sulla “guerra conclusiva” Juggernaut e Magellan. Di nuovo, un tempo non-presente che parla di null’altro che dell’oggi, questo presente dominato dal panico sociale, dalla paranoia, dalle più tristi fra le passioni generate da quell’assenza di sicurezza che si determina quando crollano le relazioni sociali che dovrebbero fare argine collettivo, e che sono segmentate dalla macchina del capitale globale che mette a valore la stessa vita.

In questo senso, la lettura dell’intera sua opera ci dice che la Guerra dei Trent’anni rappresenta la vera radice del moderno: ne contiene le alternative mancate, quelle che oggi si ripresentano nell’epoca in cui la crisi dello Stato nazionale si dà secondo le modalità proprie dello Stato nazionale, dalle dinamiche della guerra preventiva alla comparsa di istanze sovra o extra-statuali come forme di comando economico.
Il tutto, sotto il segno tragico della guerra come dimensione esistenziale, come tragica rivelazione della condizione umana, rispetto alla quale l’autore non assumeva una posizione neutra: Altieri era un combattente, un pugilatore cinico, per il quale il sapere valeva non (solo) per comprendere, ma per prendere posizione. Contro.

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In uno dei nostri incontri gli chiesi perché al gilet da pescatore che indossava – Sergio vestiva sempre come se stesse partendo per un safari o un’escursione – portasse agganciato un moschettone da alpinista: «Nella vita non sai mai a cosa dovresti poterti attaccare, brother!», mi rispose. Sergio era così: un grandone dall’aria irsuta, che svelava quasi subito una grande generosità, una disponibilità ad aiutare, a rispondere a ogni richiesta. È difficile che ci sia un solo scrittore, fra quelli che ha conosciuto, che non gli sia debitore di un consiglio di scrittura, una telefonata, una mano tesa. Ed era, anche, un uomo di enorme modestia. Anni fa gli dissi che una sua lettrice, l’addetta alle fotocopie del mio Liceo (che di storia potrebbe dare lezioni anche a noi professori!), aveva scovato un errore fra le 2000 pagine di Magdeburg – la citazione della Reggia di Versailles, che al tempo dell’evento narrato era ancora un casino di caccia del re. Sergio volle conoscere questa lettrice così attenta, e sette anni dopo, ritornando, l’ha riconosciuta e riabbracciata come una vecchia amica.

Lo scorso 12 maggio era al liceo Ariosto, a dialogare con studentesse e studenti dei suoi racconti, del Trono di spade che andava traducendo, del come e perché delle scelte di traduzione («Perché le misure in piedi e braccia, invece che in metri?» «Perché il metro è un prodotto dell’Illuminismo, e in un mondo come quello del Game of Thrones l’illuminismo non è ancora arrivato, e dunque le unità di misura sono rapportate al corpo, e non alla ragione…»); con quegli studenti avrebbe poi pranzato, e versato di tasca propria la loro quota, perché non gli sembrava giusto che dovessero pagare. L’entusiasmo che aveva saputo suscitare saltando dall’italiano all’inglese (era un perfetto bilingue) ci aveva portato a progettare un nuovo incontro, per unire la nostra voglia di reincontrarlo e la sua di ritornare.
Al suono della campana, si era alzato in piedi e aveva salutato studentesse e studenti gridando, col suo vocione:

Grazie ragazzi – e continuate a leggere: siete voi l’ultima barricata!

Bello pensare che siano state queste parole, il suo ultimo messaggio.

(la prima parte di questo testo è stata pubblicata su il manifesto il 20 giugno 2017)

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