Attualità
4 Agosto 2016
Il leghista Lodi sorprende un abusivo dentro un immobile comunale, ma niente ruspe: "Vorrei aiutarlo"

Una vita al limite tra alcol, boss ed escort. Ora vuole rinascere

di Daniele Oppo | 7 min

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Schermata 2016-08-02 alle 16.42.26“Una notte, vicino alla farmacia numero 1, mi sono messo a vomitare. Vomitavo senza sosta, finché non è iniziato a uscire sangue. Poi non so cosa sia successo, mi sono addormentato lì. Mi sono svegliato con un tocco freddo, era un bel ragazzo, mi ha detto ‘adesso ti puoi tirare su’. Ma questo l’ho visto solo io ed è possibile che uno non ci creda”.

È il punto di svolta della vita di Michele – è il nome di fantasia che gli abbiamo dato -, un ragazzo di 30 anni, magro, di bell’aspetto, con i vestiti puliti. Un dettaglio di non poco conto quest’ultimo, perché da quello che ci racconta è da due anni e mezzo che vive fuori casa, all’addiaccio, al parco urbano o negli stabili abbandonati, oppure ospite di qualche amica e amico. Ma lui è un “lupo solitario”  – come si è definito nella nostra chiacchierata prima davanti a un caffè al bar e poi in un parco pubblico -, non va dove ci sono gli altri, anzi.

A metterci in contatto con lui è Nicola Lodi, della Lega Nord, che per un giorno parcheggia la ruspa e i toni da battaglia per lasciar scoprire un suo volto dell’accoglienza. Lo ha trovato qualche mattina fa in uno stabile comunale abbandonato, uno dei posti in cui va a dormire. “Facendo due passi entro da un varco nella rete – racconta Lodi – vedo che ci sono segni di effrazione, mi avvicino e vedo un buco nella finestra e guardando dentro sono rimasto scioccato: una fitta al cuore vedendo un ragazzo giovane che mi fissa con occhi sbarrati. Lo saluto, lui mi guarda e mi saluta, mi chiede chi sono, gli rispondo che mi chiamo Nicola e rappresentò un partito e che mi occupo di degrado. Gli chiedo di uscire e fare due chiacchiere e lui accetta”.

“Il ragazzo – continua Lodi – giaceva su un cartone, niente bottiglie di birra, niente degrado, niente distruzione. Solo una persona sola, abbandonata a se stessa. Esce da una porta laterale e mi viene incontro. Mi dice che ha vergogna, che di notte arriva tardi per non farsi vedere, mi dice che ha avuto problemi con dei rumeni che volevano occupare e che li ha tenuti lontani (picchiandosi). Si presenta educato e dignitoso. Mi dice che ha perso lavoro e che ha avuto problemi di alcol e che da 6 mesi non beve più. Chiedo se posso aiutarlo, mi dice che ha problemi ma non vuole scocciare, non vuole fare casini. Mi ha colpito la dignità, e l’ammissione di essere in difficoltà“.

Niente ruspe questa volta: “Un leghista che parla di ruspe e vuole aiutare una persona che ha occupato uno stabile? Sì, voglio aiutarlo, vorrei essere per una sola ora assessore alla persona per aiutarlo, ma non lo sono. Lui non vuole elemosina o pietà, vuole aiuto per ripartire. Vorrei avere una risposta dalla assessora Sapigni, una risposta urgente, un appoggio urgente per questo ragazzo. Vorrei ricevere una telefonata da questo ragazzo, ferrarese, italiano e sentirmi dire che è tutto ok. Chi vuole e può aiutarlo, mi contatti in privato”.

La vita di Michele è una storia complicata. Lui è molto riservato, si guarda attorno, non vuole che altri sentano quel che ha da raccontare. Ma parla, risponde alle domande, va avanti da solo anche per i racconti peggiori della sua vita, “perché se dico una balla prima o poi viene fuori”.

Nato nelle Americhe, la madre – “una grande donna, faceva di tutto per noi” – si prostituiva per mantenere lui e le sue due sorelle. A 8 anni finisce in una comunità di minori, “un collegio, ma sembrava un carcere”, finché a 10 anni viene adottato da una famiglia italiana: “Tra tutti quelli che c’erano hanno scelto proprio me, da un lato è stata una fortuna, chissà come sarei finito a rimanere là”. Da allora però non sa più nulla dell’altra sua famiglia d’origine: “Non volevano che li sentissi, perché poi mi sarei riaffezionato a loro e non alla mia nuova famiglia”.

Ma non dura molto. “Ero un bambino molto vivace – ci racconta-, volevano che fossi come gli altri due figli che già avevano, ma non poteva andare così”. A 13-14 anni di nuovo in comunità, gli studi da geometra abbandonati: “Volevo fare l’accademia militare, ma i miei genitori adottivi dicevano che poi mi sarei disaffezionato a loro. Poi è andata come è andata con loro”.

Inizia da subito a vivere di espedienti, a sfruttare la sua vivacità “nel peggiore dei modi” e, soprattutto, cresce il diabolico legame con l’alcool. A 18 anni i genitori adottivi lo lasciano andare: “Se ne sono lavati le mani. Non avevo più nessuno” ci dice, e finisce di nuovo in una comunità in provincia di Brescia.

“Lì c’era un argentino, voleva aprire una comunità in Spagna. Era stato un narcotrafficante ma ne era uscito, ora è morto però”. In viaggio su un furgoncino fino in Castiglia, “dopo un mese sono scappato. A piedi fino a Madrid con una bottiglia d’acqua”.

A Madrid conosce una ragazza, una escort. Si frequentano: “Avevo tutto, avevo una casa, stavo bene”. Ma anche lì la sua vivacità, l’alcool e gli espedienti fanno durare poco l’avventura. Torna in Italia, in Liguria, ospite di una famiglia che lo accoglie bene, a due passi dal mare. “Erano bravissimi con me, ma io bevevo tantissimo, gli rubavo le bottiglie più costose”. Va via anche dalla Liguria, non prima di aver messo incinta una giovane ragazza. “Era la figlia di un boss mafioso“, ci racconta, “ho avuto un bel po’ di problemi, me la sono vista brutta”.

Il ritorno da queste parti è all’insegna di tutto il resto: “Sono andato con le 50enni, mi mantenevano loro, ma poi scappavo sempre”. Qualche soldo arriva da piccole attività di spaccio, lavora ogni tanto nella ristorazione, ma è ancora l’alcool il padrone della sua vita. C’è spazio anche per le cose belle: trova lavoro in un’azienda di Ferrara, conosce la figlia del titolare, hanno una relazione, nasce un bel bambino che oggi è la sua preoccupazione più grande.

Vanno a vivere insieme. Ma il richiamo della bottiglia è sempre presente. “Bevevo sempre”. E riaffiorano i mali del passato, la vita difficile, gli abbandoni. Michele è accompagnato da un nervosismo che non lo abbandona, si sfoga in qualche piccola rissa fuori dai locali: “Ancora oggi c’è qualcuno che se mi vede in giro cambia strada”.

Ma poi le cose si fanno molto più serie, non sono più gli estranei al bar, è la famiglia: “Un giorno ero in un bar del centro, ho bevuto molto. Poi mi hanno detto che qualcuno ha messo una pasticca del mio cocktail. Sono tornato a casa ma non ero più io, la mia compagna mi chiedeva cosa avevo. Le dicevo di lasciarmi in pace, ma continuava. A un certo punto l’ho spinta, credo di averle anche dato un schiaffo. Poi sono andato a prendere i coltelli e ho fatto un casino”.

Lei scappò, le minacce pesanti non si avverarono. “Sono arrivate le pattuglie e mi hanno portato via. Sono stato condannato a 1 anno e 9 mesi con la condizionale. Non ho mai più dato fastidio, non mi sono fatto più vedere”. Non è del tutto vero, poi si corregge: “Mi lava le cose ogni tanto, se ho proprio fame la chiamo e mi aiuta ancora”. Ma c’è il bambino in mezzo, che dice di non vedere da tanto tempo, non ci riesce, si vergogna: “Ogni tanto passo per un saluto veloce, ma non me la sento di fare di più”. Di lui non ha una foto da farci vedere, solo due disegni che custodisce ben piegati nel portafogli, insieme alla sua carta d’identità e il tesserino sanitario: “Sono belli eh? È un piccolo Picasso”.

Sa di avere tanto di cui farsi perdonare: “Adesso che sono lucido capisco cosa ha sopportato in questi anni – dice riferendosi alla compagna -. Non so come abbia fatto, le ho fatto solo del male. Adesso vorrei solo riavvicinarmi a loro, vivere con loro. Sono la mia famiglia, l’unica che mi è rimasta, voglio dar loro tutto quello che si meritano”.

Non sarà un processo semplice. Michele lo sa bene. Dice di essersi già rivolto all’Asp tempo fa, ma che data la sua giovane età è stato in qualche modo respinto. Ci riproverà. “Dopo aver vomitato sangue sono stato al Sert, mi hanno dato delle pillole per smettere di bere. Ho smesso e non le ho più prese, ma non ci sono più andato. A settembre voglio tornare, parlare con l’assistente sociale che mi ha seguito, i medici. Voglio iscrivermi di nuovo all’ufficio di collocamento, fare il giro di tutte le agenzie interinali, fare corsi di formazione. Voglio trovare un lavoro: ho 30 anni e in fin dei conti non ho mai lavorato veramente, non so fare nulla. Ma dai sei mesi sono una persona nuova”.

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