Attualità
29 Gennaio 2016

La giornata della memoria corta

di Elena Bertelli | 6 min

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Questa immagine è una rara testimonianza di persecuzioni operate dai nazisti nei lager, si vedono a malapena i corpi nudi e scheletrici dei prigionieri, su di essa il critico francese Gerorge Didi-Huberman ha scritto il saggio "Immagini Malgrado tutto", pubblicato da Cortina Editore

Questa immagine è una rara testimonianza di persecuzioni operate dai nazisti nei lager, si vedono a malapena i corpi nudi e scheletrici dei prigionieri, su di essa il critico francese Gerorge Didi-Huberman ha scritto il saggio “Immagini Malgrado tutto”, pubblicato da Cortina Editore

Lo hanno affermato in molti e non posso che condividere la preoccupazione per la labilità del ricordo. Ieri, 28 gennaio, la maggior parte di noi ha già rimosso con sollievo le tremende immagini della Shoah, scorse a fiumi sui nostri televisori e sui diari di Facebook. Dobbiamo vergognarcene?

Viviamo sommersi dalla sovrapposizione continua e inarrestabile di immagini di ogni tipo, vittime inconsapevoli di quell’horror pleni raccontato da Gillo Dorfles. Ma non è tanto questo il cuore della questione di cui mi va di scrivere stasera, tanto il fatto che tra quelle innumerevoli immagini che si rincorrono tutto il giorno davanti ai nostri occhi ormai insensibili, simpaticissimi gattini si alternano a scene di orrori evitabili, perpetrati ai danni dell’essere umano, poco distante dalle nostre case.

La memoria è talmente corta che abbiamo già voltato le spalle alle dure battaglie con le quali i nostri nonni hanno strappato all’oppressore la libertà di cui godiamo ingrati. Dimenticando, vanifichiamo i milioni di vittime innocenti sterminate in nome di una religione, di una razza, di un ideale. Primo Levi, in Se questo è un uomo, ha scritto queste parole, messe ben in evidenza lungo il percorso della mostra Il mondo di Primo Levi, in corso nell’imbarcadero del Castello Estense: “Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli“. Proprio la mattina del 27 gennaio, giornata mondiale della memoria, prima di visitare la mostra, leggo tra le ultime notizie della decisione del governo danese di confiscare i beni ai profughi, privandoli di denaro e oggetti di valore oltre i 1.300 euro «per contribuire alle spese di mantenimento e alloggio» – davvero una ipotesi ottimista, considerando il povero bagaglio con cui viaggiano queste persone disperate, in fuga da territori in guerra. Notate alcun nesso tra la testimonianza di Primo Levi e le scelte della Danimarca?

Andiamo avanti a scorrere tutte quelle immagini di cui il web ci inonda, perfino le fotografie di nudo hanno smesso di catturare la nostra attenzione. E proprio alla figura umana spogliata dei suoi abiti, citata poco fa, ci riporta un altro fatto che sta infiammando gli animi, facendo scattare la caccia al responsabile tra muri di ‘non ne sapevamo niente’.

Se per il prigioniero la nudità è un insulto, prima ancora di essere mancanza di protezione dal freddo, nell’età classica il corpo nudo era qualcosa da esibire, quintessenza di bellezza e perfezione delle forme, rappresentazione di purezza e proporzione, estraneo al concetto di vergogna. Oggi in quel groviglio di immagini è tutto un susseguirsi di carne scoperta che ci lascia indifferenti, che si tratti di un nudo artistico, pornografico o anatomico. Eppure c’è ancora chi sente il bisogno di coprirlo quel nudo, temendo di offendere un ospite dalla cultura diversa (che non significa meno colto) dalla nostra.

Non risollevo la questione Rohani ai Musei Capitolini per porre l’accento sull’ironia dello zelo impiegato per nascondere le statue svestite – secoli di memoria della nostra civiltà – quando in ballo ci sono affari per miliardi di euro, tanto simile all’impegno che una manciata di terroristi mette nell’abbattere statue millenarie per rivenderne i pezzi sul mercato nero.

Voglio invece far notare come, di fronte a una situazione di incertezza o timore ci siano individui pronti a celare e rinnegare la propria memoria e quella dei cittadini cui quella memoria appartiene, capaci di sbriciolare in un giorno la reputazione di un museo di importanza mondiale e gettare in pasto alla stampa la gestione italiana dei beni culturali, che migliaia di professionisti quotidianamente conserva e valorizza sapientemente, per rendere accessibili al pubblico le testimonianze del nostro passato di fasti, bellezza, errori e guerre, evitando che la documentazione storica venga cancellata e il passato dimenticato, alzando il rischio di ricaduta in tragici errori già commessi.

Restiamo sull’attualità, spostandoci in terra fiamminga: il Rijksmuseum di Amsterdam è riconosciuto a livello mondiale come uno dei più innovativi, la cui direzione snocciola periodicamente idee geniali capaci di attirare folle di visitatori e mantenere sulla cresta dell’onda il vecchio Rembrandt e altri pittori che, nonostante il passare dei secoli, continuano a essere delle superstar. Pochi giorni fa il Rijks ha reso nota una delle decisioni più discusse dell’ultimo periodo: modificare i titoli di opere che possono risultare offensivi a determinate fasce di pubblico. Ecco ad esempio che l’opera “Young nigro girl” è diventata “Young girl holding a fan”. Questa scelta, tacciata di revisionismo, è in realtà stata accompagnata da due importanti note a margine: 1. i titoli della maggior parte di quelle opere non sono attribuzioni degli artisti ma scelti in momenti successivi da collezionisti, curatori ecc. 2. I vecchi titoli saranno lasciati in evidenza, accessibili online al pubblico, accompagnati dalla motivazione alla sostituzione.

Questi due recenti casi di gestione del patrimonio artistico, uno indiscutibilmente deprecabile, improvvisato -all’italiana insomma- l’altro, a mio parere esemplare in quanto ragionato e motivato, aprono una riflessione sull’importanza dei beni culturali come veicolo di memoria. Torniamo così alle parole di Primo Levi che, ne I sommersi e i salvati, scrisse: “La ragione, l’arte, la poesia, non aiutano a decifrare il luogo da cui esse sono state bandite.” descrivendo una situazione non lontana da quella ricercata dai terroristi nel devastare Palmira.

Vogliamo regredire fino a questo punto? Disimparare a leggere, scrivere o smettere di emozionarci davanti al liscio biancore di un marmo scolpito? Sapremo ancora, tra qualche anno, guardare per intero una rappresentazione teatrale e apprezzare lo sforzo dell’attore sul palcoscenico? Non è certo nascondendo le opere d’arte che invertiremo questa regressione. E se ci dimenticheremo dell’opportunità di poter entrare, in qualsiasi momento, in musei, fatti per instaurare un rapporto intimo con l’opera, in biblioteche per scegliere, sfogliare e conoscere, gratuitamente… allora non ci resterà che applaudire ai discorsi di politici tronfi della propria ignoranza populista e temere il diverso, privarlo dei propri averi e rinchiuderlo senza sentirci colpevoli, senza vergognarci, mentre tanta è la vergogna del prigioniero sopravvissuto tra milioni di vittime: «Tutti avevamo rubato: alle cucine, alla fabbrica, al campo, insomma agli altri, alla controparte, ma sempre furto era; alcuni, pochi, erano discesi sino a rubare il pane al compagno. Avevamo dimenticato non solo il nostro paese e la nostra cultura, ma la famiglia, il passato, il futuro che ci eravamo rappresentato perché, come gli animali, eravamo ristretti al momento presente.».

Se Primo Levi e molti come lui sopravvissuti dai lager si sono poi arresi di fronte al senso di colpa, come possiamo noi, oggi nel calore delle nostre case, nel benessere che ci circonda, non sentirci a disagio, di fronte alla vergogna non provata per una memoria che si fa sempre più breve, alla mancanza di sdegno e di reazione di fronte ai gesti di violenza e privazione compiuti ai danni di altri esseri umani, cui continuamente assistiamo immobili? La risposta alla domanda posta all’inizio di questo post, dobbiamo vergognarci della nostra memoria da criceti, è quindi Sì, dobbiamo.

Ringrazio spassionatamente chi ha reso possibile la mostra di Primo Levi. oltre a essere molto bella, didattica, multimediale, completa e gratuita, mi ha ricordato tante cose davvero importanti.

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