Attualità
25 Gennaio 2016
La storia di un senzatetto marocchino, tra la ricerca di lavoro e rispetto e la rabbia verso la criminalità

La dignità sotto un ponte

di Ruggero Veronese | 4 min

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ImmagineCon il 2016 si è aperto l’anno degli sgomberi, chiesti a gran voce da parti di cittadinanza e partiti sull’onda dell’emergenza migratoria e degli episodi di criminalità nelle città italiane. Ma chi vive davvero nei bivacchi e sotto i ponti di Ferrara? Il panorama è molto vario: se è vero che nell’accampamento in via Maverna aveva soggiornato almeno uno degli assassini di Pierluigi Tartari, tra gli ‘invisibili’ che allestiscono ripari improvvisati c’è anche chi ha perso il lavoro ma si rifiuta di guadagnarsi da vivere attraverso attività illecite. Persone che hanno poche e semplici richieste verso i ferraresi: saper distinguere la povertà dal reale degrado e cercare di tendere una mano a chi cerca un lavoro e un riscatto sociale.

Tra questi c’è Muktar, 52 anni, nazionalità marocchina, da tutti conosciuto come Mimmo: un fornaio disoccupato che vive in Italia da 14 anni (potete trovare l’intervista nell’articolo che segue). Lo cerchiamo dopo aver notato alcune fotografie del suo bivacco: un materasso circondato da alcune assi per ripararsi dal vento, vestiti e provviste accatastati accanto a una bombola del gas e una bicicletta appoggiata al muro. Dell’inquilino neanche una traccia, almeno ai primi tentativi. Chi ne parla sono alcuni ‘vicini’ che vivono nel caseggiato attorno: descrivono una persona tranquilla e in perenne ricerca di lavoro, caduta nella povertà più assoluta dopo che, negli ultimi anni, molte imprese agricole hanno drasticamente ridotto la paga oraria per i raccoglitori di frutta: da 7 a 3,5 euro all’ora, in nero. Mimmo ogni giorno pedalava fino all’Alto ferrarese per lavorare nei campi, ma diverse aziende hanno approfittato della concorrenza al ribasso tra i ‘nuovi’ immigrati – soprattutto dall’Europa orientale – per imporre compensi da fame.

27 euro al giorno equivalevano a quasi quattro ore di pedalate in campagna più otto di raccolta nei campi

Il tutto giocando sulla spietata logica del prendere o lasciare. E Muktar ha lasciato. Circa un anno e mezzo fa: 17 chilometri separano il capannone dove viveva dall’azienda agricola che – a volte – gli dava lavoro. Con la riduzione dei compensi, 27 euro al giorno equivalevano a quasi quattro ore di pedalate in campagna più otto di raccolta nei campi, con tutte le incognite legate alle condizioni meteorologiche e all’andamento delle coltivazioni.

Quando lo incontriamo ci racconta che a farlo cedere è stato l’ennesimo schiaffo alla sua dignità: dopo due settimane di turni straordinari l’azienda gli ha riconosciuto solo due giorni di paga extra, e nemmeno recandosi al patronato è riuscito a ottenere giustizia. I funzionari gli hanno semplicemente consigliato di rivolgersi al proprio avvocato, ma con un lavoro in nero e senza alcuna documentazione sarebbe stata solo una spesa inutile. Del resto, era la sua parola contro quella del datore di lavoro.

Sei mesi dopo ha perso anche un tetto sopra la testa: il capannone in cui si era rifugiato e dove coltivava un orticello è stato demolito per far spazio a un nuovo cantiere e Mimmo si è trasferito sotto al ponte a poche decine di metri di distanza. Da allora passa le sue giornate tra il centro della Caritas e il quartiere attorno al suo giaciglio all’addiaccio, trovando qualche lavoretto in attività di giardinaggio o in piccole riparazioni domestiche. Un vicino lo chiama come ‘custode’ anche quando parte per le ferie, chiedendo a Muktar di dare un’occhiata alla sua abitazione.

Ciò che colpisce di questo 52enne, che per dieci anni ha lavorato regolarmente come fornaio e magazziniere a Caserta e Ferrara, sono la sua dignità e la sua ostinazione nel voler vivere una vita onesta, nonostante tutte le difficoltà. “Credo che ci sia gente che sta peggio di me – racconta offrendo una sigaretta -. Io almeno ho la forza per alzarmi e cercare di lavorare. La forza di lavorare ce l’ho”. Nascoste tra gli indumenti logori conserva giacca elegante, cravatta e camicia, che indosserà quando si presenterà l’occasione per un colloquio di lavoro. Per ripiegarle usa un vecchio ferro da stiro che arroventa sulla fiamma del fornello. Da marocchino prova rabbia verso quegli stranieri che una volta giunti in Italia si danno allo spaccio o alla criminalità, perché sono loro ad alimentare i pregiudizi che paga sulla propria pelle: diffidenza, difficoltà a trovare un’occupazione, a volte anche insulti o comportamenti ostili da parte degli italiani. Da musulmano prova rabbia verso i regimi islamisti e i terroristi responsabili delle stragi a Parigi, che rifiuta di riconoscere come credenti: “Non è Dio a dire di uccidere un cristiano. Perché dovrei uccidere un cristiano? Dove sta scritto? Chi fa il terrorista non è musulmano”.

Nascoste tra gli indumenti logori conserva giacca elegante, cravatta e camicia, che indosserà quando si presenterà l’occasione per un colloquio di lavoro

Muktar, e altri come lui, chiede ai ferraresi di saper ascoltare, distinguere i singoli casi e di avere la pazienza di capire quali sono le condizioni in cui vive un senzatetto, senza bollarlo frettolosamente come “degrado urbano” invocandone lo sgombero. “Se mi mandassero via da qua prendo tutto e vado da un’altra parte, ma poi torno qui. Dove posso andare?”. Il sole deve ancora calare del tutto ma il freddo entra già nelle ossa. Rimane in silenzio per un po’. “L’Italia è cambiata rispetto a una volta, più cattiva. Mi dispiace”. E lo dice come se fosse dispiaciuto non per se stesso, ma per noi.

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