The scriblerus club
12 Agosto 2006
Ovvero è sempre più povero il signor B

Cinquant’anni fa moriva Bertolt Brecht

di Giacomo di cristallo | 5 min

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Bertolt Brecht

Bertolt Brecht

Era il 14 agosto del 1956. Cinquant’anni fa moriva Bertolt Brecht. Fu esule, e andò cambiando più spesso paese che scarpe, portando sempre con sé un mattone, per mostrare al mondo com’era stata un giorno la sua casa. Conobbe il terrore e la miseria del terzo Reich e guardò la Germania, pallida madre, sedere insozzata tra i popoli. Vide le falsità della storia e capì che la menzogna si scrive col sangue, mentre per la verità basta l’inchiostro. L’unica usurpazione che concepiva era quella della dolce violenza che la ragione usa agli uomini.

Lasciò il suo canto, dove una rima sarebbe sembrato un atto protervo. Ecco allora uno dei suoi canti. A distanza di cinquant’anni nulla è cambiato. Ci sono ancora città in rovina, delle quali resta solo il vento che le attraversa. Nelle guerre i primi a morire sono ancora i bambini, gente di domani che chiedeva un oggi. Oggi come allora esistono dei ragazzi che scappano dal loro paese devastato dalla guerra in cerca di una terra dove vivere in pace.

***********

La crociata dei ragazzi

In polonia, nel Trentanove, una battaglia grande ci fu

che fece rovina e deserto di tanti paesi e città.

La sorella ci perse il fratello, la moglie il marito soldato,

tra fuoco e macerie i figliuoli i genitori non trovano più.

Di Polonia non venne più nulla, né notizie ai giornali né lettere.

Ma nei paesi dell’Est una storia strana raccontano.

Nevicava, quando in quei posti si sentì che la gente parlava

d’una crociata di ragazzi che in Polonia era cominciata.

Trottavano sugli stradali ragazzi affamati attruppati,

e dai villaggi bombardati altri portavano con sé.

Dalle battaglie volevano fuggire, da tutti quegli incubi

e finalmente un giorno, venire a una terra di pace.

Avevano un piccolo capo che li aveva guidati fin là.

Ma una gran pena aveva in cuore: la strada non la sapeva.

Una d’undici anni menava un bambino di quattro anni

Come una mamma farebbe; ma non fino a una paese di pace.

Marciava nel gruppo un piccolo ebreo col suo bavero di velluto;

lui, avvezzo al pane più bianco, da coraggioso s’era battuto.

E due fratelli venivano avanti, che erano grandi strateghi

per assalire fattorie deserte, lasciate alla pioggia.

E c’era uno, grigio, sottile, che andava da solo pei campi

Con una colpa tremenda: veniva da un’ambasciata dei nazi.

E un musicista tra loro

Che in un negozio distrutto aveva trovato un tamburo

Ma, per non farli scoprire, non lo poteva suonare.

E anche c’era un cane: per ammazzarlo l’avevano preso

Ma gli era mancato il coraggio e ora mangiava con loro.

E c’era una scuola ed un piccolo maestro che si sgolava.

Sulla corazza di un carro, uno scolaro sillabava, di “pace”, “p” e “a”.

E al fragore di un freddo torrente anche un concerto ci fu:

nessuno li avrebbe sentiti e il tamburo allora suonò.

E anche c’era un amore, lei dodici, lui quindici anni.

In un cortile di macerie, lei i capelli gli pettinava.

L’amore non poté resistere, il freddo che venne fu troppo.

Come le piante possono fiorire se cade tanta neve?

E anche una guerra ci fu, perché un’altra banda comparve,

ma la guerra fu presto finita, ché non c’era ragione di farla.

Ma mentre ancora infuriava introno a un casello distrutto,

si dice che uno dei gruppi a un tratto fu a corto di viveri.

E quando gli altri lo seppero mandarono uno dei loro

Con un sacco di patate; perché chi non mangia la guerra non fa.

E ci fu anche un processo, e ardevano due candele.

E fu un’inchiesta penosa. Il giudice venne condannato.

E il funerale ci fu di un ragazzo che portava il colletto di velluto.

Lo calarono due tedeschi e due polacchi nella fossa.

C’erano protestanti, cattolici e nazi per consegnarlo alla terra.

E alla fine un piccolo socialista parlò del futuro dei vivi.

Così c’erano fede e speranza, ma non c’era né carne né pane.

Chi non gli dette un tetto non mi venga ora a dire che rubavano.

E nessuno dia colpa a quei poveri che non li invitarono a tavola.

Per cinquanta ragazzi, farina ci voleva, non solo bontà.

Pareva che andassero a sud. Il sud è dove il sole

all’ora di mezzogiorno proprio ti sta davanti.

Trovarono anche un soldato tra gli aghi dei pini, ferito.

Lo curarono per sette giorni perché gli indicasse la via.

Lui disse: “A Bilgoray!”. Tremava tutto di febbre,

l’ottavo giorno morì e così anche lui seppellirono.

Sebbene coperti di neve c’erano frecce e cartelli.

Non mostravano più la via giusta, qualcuno li aveva scambiati.

Non era uno scherzo malvagio, era per ragioni di guerra:

cercando così Bilgoray nessuno mai ci arrivò.

Erano in cerchio intorno al loro capo. Lui guardava nell’aria di neve.

Accennò con la piccola mano e disse: “Dev’essere laggiù”.

Una notte videro un fuoco ma non gli andarono incontro.

Tre carri armati, una volta, passarono e dentro c’erano uomini.

E una volta giunsero presso a una città, e le girarono attorno,

camminando soltanto di notte finché la città non passò.

Dove una volta c’era la Polonia del sud, furono visti nella neve

Della tormenta, quei cinquantacinque, per un’ultima volta.

Quando io chiudo gli occhi li vedo come vagano

Dalle rovine di una fattoria alle rovine di un’altra.

Su di loro, lassù nelle nuvole, vedo altri cortei, nuovi, grandi!

Vanno a fatica contro i venti freddi, i senza patria, i senza meta,

cercando una terra di pace, senza il tuono, senza l’incendio,

non come quella che lasciano. E immenso diventa il corteo.

E dentro il buio del crepuscolo non mi pare già più quel che era.

Altri piccoli visi vi scorgo, spagnoli, francesi, orientali.

In Polonia, in quel mese di gennaio, un cane fu per primo preso.

C’era un cartello appeso al suo collo smagrito,

e c’era scritto: “Aiutateci, abbiamo perduta la strada.

Siamo cinquantacinque. Il cane vi guiderà.

Se non potete venire, lasciatelo andare via.

Non gli sparate. Dove siamo, lui solo lo sa”.

Era una scrittura infantile. La lessero quei contadini.

Un anno e mezzo è da allora passato. Il cane moriva di fame.

(1942)

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da Bertolt Brecht, “Poesie e canzoni”, Einaudi (trad. Ruth Leiser e Franco Fortini)

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