Pensieri stringati
29 Ottobre 2015

Numero 15

di Paolo Simonato | 6 min

Esco di casa.

Accompagno delicatamente il portone e annuso lo spazio intorno, ancora incredulo per questo ottobre tiepido e umido, da zanzare in camera da letto e biancheria che non si asciuga.

Mi metto in moto con cautela, quasi intimidito e grato per la inattesa carezza dell’aria e dopo pochi passi… pesto una cacca di cane.

La magia del momento si volatilizza in un lampo, e viene sostituita dalle imprecazioni verso l’anonimo proprietario del quadrupede e verso il quadrupede stesso. Non ho mai posseduto un cane e se da bambino, come tutti, ho attraversato un periodo in cui avrei desiderato ardentemente averne uno, in questo momento mi domando cosa diavolo possano trovarci tante persone nell’accollarsi una simile bega.

Borbottando imprecazioni, mi pulisco alla benemmeglio la suola alle spese di alcuni incolpevoli ciuffi d’erba che stentatamente si sporgono sulla strada; riprendo quindi la mia corsa, pestando più forte che posso sull’asfalto nella speranza che si stacchino gli ultimi repellenti residui.

Vedo Luca prima che lui veda me, mentre corre verso l’alberone dove, come al solito, ci siamo dati ritrovo. Mi sembra di percepire qualcosa di diverso, di meno elastico, di più spento nella sua corsa; e la stessa sensazione, ancora più forte, la ricavo dal suo saluto, dal suo braccio che con poca convinzione si alza ad attirare la mia attenzione.

Ci veniamo incontro e ci abbracciamo senza smettere di correre (un’arte che si mette a punto solo dopo anni di esperienza); ma anche il suo volto mi comunica che c’è qualcosa che non va.

“Max?” gli chiedo.

“L’ho fatto sopprimere” mi dice con gli occhi lucidi.

Max è – era – il cane di Luca; uno splendido boxer di 13 anni, quindi decisamente anziano, per la sua razza.

Luca è tornato da Milano perché sua madre gli ha telefonato, avvertendolo che le pareva che Max stesse male; e purtroppo evidentemente aveva ragione…

Non voglio dire nulla; percepisco solo, amplificato dal silenzio, il dolore dell’amico che mi corre a fianco e ci dirigiamo verso la Prospettiva, ascoltando il suono ritmico delle nostre falcate e del nostro respiro.

“L’ho fatto sopprimere” mi dice ancora mentre riprendiamo le mura oltrepassata Porta Mare “aveva un cancro molto esteso, con molte metastasi”.

“Quando sei arrivato?” gli chiedo, e mi rendo conto, dal tono della mia stessa voce, dalla mia domanda, che cerca delicatamente da un lato di circostanziare meglio gli ultimi avvenimenti e dall’altro di spostare l’attenzione di Luca dal nucleo della sua sofferenza, che senza volerlo mi sto comportando come ci si comporta con qualcuno che ha subìto un lutto.

“L’altro ieri; ho visto subito che stava male, aveva il ventre gonfio, era una settimana che non mangiava”.

Nel frattempo, proseguendo nella corsa, incrociamo una coppia che porta a spasso un bel golden retriever color nocciola, e Luca li saluta; uno di loro gli fa cenno che vuole sapere notizie e Luca, sempre correndo, allarga le braccia.

“Mi dispiace” gli grida quello mentre noi ci allontaniamo.

E’ una specie di comunità quella dei proprietari di cani, rifletto, che in buona parte si conosce al suo interno e che crea una vera e propria rete sociale e anche di sostegno, in certi momenti.

“Ieri…” Luca si interrompe, forse per ricacciare indietro la commozione “ieri, mentre ero a tavola, mi si è avvicinato e mi ha appoggiato il muso sulla coscia, guardandomi negli occhi. Gli ho dato una briciola della polpetta che avevo nel piatto, e lui l’ha mangiata”.

“Ti ha voluto fare un regalo” gli dico.

“Lo penso anch’io” mi risponde “forse ha cercato di tranquillizzarmi, di farmi vedere che ce la faceva”.

Mi ritrovo a fare i conti con certi miei pregiudizi; ho sempre trovato eccessive, retoriche, romanzate certe considerazioni sulla sensibilità dei cani, ma ora che tocco questi concetti direttamente attraverso la sofferenza di Luca mi rendo conto della loro concretezza.

“Nel pomeriggio l’ho portato dalla veterinaria. Gli ha fatto una ecografia all’addome, e mi ha descritto la situazione”.

Facciamo dietro front giunti alla fine di Viale Belvedere, e riprendiamo in direzione opposta.

“Hai fatto quello che era giusto fare” gli dico “non si poteva fare altro”.

“Non si poteva fare altro” ripete Luca.

Avverto che questa formula, per quanto probabilmente vera, non gli basta, non lo giustifica, non lo assolve.

Mi viene in mente un libro di Adriano Sofri, “L’ombra di Moro”, in cui l’autore parla del suo primo cane, e gli racconto la storia. Il cane, un pastore tedesco, era stato adottato dal piccolo Sofri che l’aveva trovato, abbandonato, per strada. Dopo un periodo di grandi giochi e felicità il cane si ammalò e fu necessario sopprimerlo; lo stesso Sofri si incaricò di quel tremendo compito. In seguito però oltre che con il dolore dovette fare i conti con un sentimento complesso, ambivalente, di sgradevole orgoglio per essersi comportato “da grande”.

“Forse capisco cosa intendeva dire…” dice Luca, incerto “è come se il male, la responsabilità di una scelta irreversibile che coinvolge un altro essere vivente non si risolvesse solo così, dicendo che era giusto”.

“Anche se era giusto” aggiungo io.

“Sì, anche se era giusto”.

“Però voglio raccontarti una cosa” aggiunge Luca dopo una pausa “Io ho sempre avuto paura del dolore, intendo del dolore morale, interno. Ho sempre cercato di sfuggirlo, persino di negarlo a me stesso. Ma ieri non potevo fuggire, non potevo lasciarlo solo: dovevo cercare di tranquillizzare Max, di accarezzarlo, di stargli vicino. E quindi non sono potuto sfuggire al mio dolore”.

“Hai dovuto guardarlo in faccia” dico io.

“Di più: sono dovuto starci dentro, abitarlo. E avermi aiutato a fare qualcosa che per me è difficile è stato l’ultimo insegnamento, l’ultimo regalo che ho avuto da Max”.

Il suo volto, adesso, pare più disteso; forse la fatica fisica lo ha aiutato a rilassarsi, forse parlare, dividere le pene, ha avuto ancora una volta un effetto terapeutico, o se non altro di parziale sollievo.

Copriamo gli ultimi chilometri in scioltezza, in progressione verso l’alberone dove ci salutiamo.

Ripercorrendo la via di casa mi ricordo l’episodio che ha caratterizzato l’inizio del mio allenamento di oggi, le mie imprecazioni e il mio interrogarmi su cosa possa portare ad accollarsi la bega di tenere un cane. Mi viene in mente una paziente con cui ho parlato pochi giorni fa, che mi spiegava che una delle cause della sua ricaduta depressiva era la preoccupazione per la salute del suo cane, e di come ho liquidato piuttosto frettolosamente questa affermazione.

Penso che domani le chiederò di parlarmi del suo cane.

Penso che forse ero un po’ diverso, un’oretta fa.

E penso che questo è il regalo che Max ha fatto a me.

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