Du iu śpich frares?
22 Settembre 2015

Teresina “quàtargàmb”

di Maurizio Musacchi | 15 min

Gentili Lettori, quella che vi presento oggi è una storia ispirata a qualcosa di vero: l’orrenda guerra, la Shoa a Ferrara, altrettanto terrificante e, filo conduttore, una tenerissima, altrettanto tragica, storia d’amore. Questo mio racconto, è tratto da “San Valentino a Ferrara”, un libro di racconti poesie e disegni, ispirati alla mia Città, che pubblicò Este Edition tempo fa. C’è, a seguire, l’immancabile traduzione in Dialetto Ferrarese. Buona lettura!

 

 

TERESINA “ QUÀTARGÀMB”

 

L’interprete di questa storia, è una piccola donna, colpita duramente dal destino: nel fisico, e nel sentimento più dolce, l’amore. L’immagine che ho da sempre davanti agli occhi, è di una creatura minuta, dall’incedere lento, appoggiato a due stampelle a triplo piede, per aderire meglio al suolo, fungendo così da gambe supplementari. Una tremenda malattia, compromise gravemente le facoltà di deambulare fin dall’infanzia, costringendola alla schiavitù di due grucce. Per questa sua immagine da dolce “ragno” umano, fu chiamata con “scutmai” (soprannome in dialetto ferrarese): “Quatargamb”, tanto crudele quanto azzeccato.

Quattro erano le gambe che la sorreggevano da sempre: due sue, e le altre artificiali.

Abitava in un piccolo appartamento a pianterreno, in Via Terranova a Ferrara.

La conobbi perché, al piano superiore della sua dimora risiedevano certi miei zii che, ad un certo punto della loro vita, si trasferirono sul Lago di Garda, pur conservando il loro alloggio in città. Mi consegnarono le chiavi con l’incarico di controllarne i vari impianti, la posta, le bollette e altro. Saltuariamente mi recavo in quel luogo e, al primo giro di chiave, allorché mi accingevo all’apertura del portone che dava sulla strada, Teresina era già alla finestra che dava sull’androne, per salutarmi e per controllare chi stava entrando, curiosità accentuata nelle persone anziane e sole, un misto d’interesse e doverosa prudenza:

– Èl lu? Sgnòr Maurizio (È lei? Signor Maurizio?)- Eppure m’aveva già intravisto, e certo riconosciuto.

Sentivo dall’interno, passi strascicati avvicinarsi lentamente alla porta dell’appartamento, quindi udivo poi arrabattare alla serratura dell’ingresso, ed ecco, appoggiata alle inseparabili stampelle apparirmi “Quàtargàmb. Dopo il naturale e scontato il rito dei saluti, seguivano domande immancabili, concernenti i rispettivi stati di condizione fisica.

A volte m’invitò d’entrare in casa, per cambiare qualche lampadina bruciata, o altri piccoli lavoretti. Spesso mi resi conto che erano un probabilmente inventati, atti solo a riempire un po’ della sua solitudine; ma non c’era certo necessità di scuse per farmi accedere a quell’appartamentino, io lo feci sempre di buon grado, per la mia naturale curiosità nei confronti degli anziani. Amavo sentire storie e vecchie testimonianze, infarcite con qualche doveroso pettegolezzo, nei confronti d’alcuni personaggi borghesi del centro storico, o della Ferrara “bene”; ma m’interessavano anche vicende di gente comune. Teresina, nonostante la veneranda età, e l’infermità che si trascinava da sempre, ed alcune devastanti operazioni chirurgiche che aveva sopportato negli anni, aveva capelli neri, ed il viso liscio senza rughe.

Accompagnava il conversare con un sorriso malinconico, quasi ambiguo; mi ricordava i ritratti dei grandi pittori del Rinascimento. Con la confidenza acquisita, e a risposta di certe mie provocazioni scherzose, in merito a suoi presunti amori giovanili; quando le dimostrai ammirazione per la sua bellezza, mi aprì alle proprie cose private, e fu un’ulteriore lezione di vita; una delle tante che ci potrebbero consegnare gli anziani allorché si ascoltassero con umiltà, e non con altezzosa diffidenza:

-Agh fagh vèdar che anca mì a gh’ò avù n’ambròs!- (Le faccio vedere che anch’io ho avuto un fidanzato.) Mi parlò sempre in dialetto, che accettai di buon grado stante l’amore che porto nei confronti della mia lingua, inoltre in tal modo, la conversazione fu sempre più fluida.

Aprì un cassetto e ne trasse un vecchio album di fotografie, uno di quelli con la copertina marrone in pelle. L’aprì lentamente, sfogliò alcune pagine, e si fermò poggiando le mani sulle facciate; poi quasi accompagnando il gesto da timida carezza, sospirando, scoprì con calma le vecchie immagini. Lei spiccava ben riconoscibile, nelle foto da ragazza, le quali, pur ritoccate da un bravo storico fotografo della vecchia Ferrara, palesavano un viso stupendo.

Altre istantanee la ritraevano con parenti ed amici, in giro per la città; oppure scattate durante le poche gite che effettuò negli anni. Alcune ritraevano un ragazzo molto bello, bruno di carnagione, capelli lisci ed impomatati, “alla Rabagliati”. Era seduto di lato a lei giovane, sempre molto fotogenica. Qualcuna la ritraeva in piedi, senza grucce e lui a fianco l’abbracciava alla vita per sostenerla, ma forse pure, per naturale gesto d’amore.

I visi raggianti, traducevano alla vista l’immagine di fresca, giovanile, felicità …

Iniziò a narrare, bisbigliando a capo chino, su quel contenitore di ricordi perduti nel tempo…

Mi descrisse la storia del ragazzo: Lele, nomignolo preso dal nome tipicamente ebreo. Rampollo di una ricca famiglia borghese ferrarese. Si conobbero nella pasticceria storica di via Mazzini, ove lei si recava a volte per consumare il suo unico “vizio”: alcuni pasticcini e una tazza di cioccolato caldo. Narrava sognante, ed il Dialetto Ferrarese diventava quasi poetico, anche per la tenerezza con cui mi parlò del primo approccio, dei suoi indugi a causa del problema fisico e il pensiero ossessivo, un incredulo: “ Cosa mai vorrà da me?”

Intanto le leggi anti ebraiche e poi la pazzia della guerra colpì l’Europa. Gli ebrei ferraresi fuggirono, o furono deportati nei campi di sterminio, dai quali ben pochi tornarono.

Lui non volle allontanarsi, nella convinzione di fruire una certa immunità familiare, per meriti politici e di combattente di cui si era coperto il padre durante la Grande Guerra.

Purtroppo s’ingannò. Un triste giorno, in cui erano insieme, lui fu prelevato da un paio d’individui e fatto salire di forza, su un’auto nera, in via Mazzini davanti alla “loro” pasticceria, mentre lei, osservando come paralizzata, stupita attonita ed impotente, fu presa da un brutto presagio; infatti, disgraziatamente … non lo rivide mai più!

Interruppe il racconto, le mani sull’album tremavano, prese di tasca un fazzoletto e se lo portò agli occhi, per asciugare qualche lacrima, poi con un misto di pudore, abbassò la testa e:

-Scusèm Sgnòr Maurizio, mò a gh’ò al rimors che ch’al ragazét al sia mort par colpa mié e tut il volt ch’am vién a mént ad lù am vién da zigàr!- (Scusatemi Signor Maurizio, ma ho rimorso che quel ragazzo sia morto per colpa mia, e tutte le volte che mi ricordo di lui, mi viene da piangere-) Cercai d’incoraggiarla, ricordando che i colpevoli di quella, e di tante altre morti, sono da ricercarsi ben lontano dalla sua casa di via Terranova, e non hanno nome Teresa!

Ebbi un bel rapporto per anni con Teresina. Mi raccontò altre storie, alcune drammatiche, altre di piccoli pettegolezzi di borgo; pur provando scetticismo nei confronti delle sue ricostruzioni del passato, le ascoltai sempre con grande interesse.

Un brutto giorno, “Quàtargàmb”, decise di andare a trovare i personaggi che non c’erano più, ci andò addormentandosi per sempre: una dolce morte, il lungo imprescindibile “sonno eterno”. Qualche giorno dopo la sua scomparsa, recandomi casualmente nell’appartamento degli zii, vidi che la porta di Teresina era aperta, in casa c’era la nipote, figlia del fratello, che spesso avevo visto quando veniva a trovare la vecchia zia. Entrai, per salutarla, esprimendo contemporaneamente le mie doverose condoglianze. Notai subito sul tavolo, il vecchio album di foto, le domandai, ed ottenni il permesso, di poterlo sfogliare insieme. Nell’ultima pagina, fermata con una spilla da balia, c’era una busta intestata del Comando Americano in Germania, con bollo postale in data 20 Aprile 1946. Dentro, un foglietto ingiallito, scritto con matita copiativa. Riuscimmo a leggerne il contenuto esponendolo alla luce della finestra tanto era sbiadito, poche frasi che mi fecero rabbrividire:

<< Mia dolce Teresa, se riuscirò a tornare da quest’inferno, ti sposerò! Ti amo (qui da dove scrivo non posso permettermi di mentirti), e non trovar scuse per quel tuo piccolo difetto! Ti voglio bene come sei, e se mi ami anche tu come mi hai detto tante volte, ci sposeremo. Io voglio tornare, voglio vivere, “devo” tornare: aspettami! Tuo eterno amore, Lele!>>

— — —

Esco dalla casa di Teresa e sono un po’ frastornato, è sera. Prendo a destra, per via Mazzini, semideserta. È turno di chiusura pomeridiana delle attività commerciali. In fondo, nella nebbia, intravedo due figure: un ragazzo alto dai capelli impomatati, con a fianco una donnina che incede lentamente, aiutandosi con le stampelle. Mi levo e pulisco gli occhiali, li inforco di nuovo, davanti a me non c’è nessuno … cos’ho visto, un miraggio?

Alzo d’istinto gli occhi alla mia destra, verso la lapide affissa sul muro della Sinagoga con la lista dei deportati ebrei morti; il cognome e nome di Lele si staglia nettamente fra i tanti. È tutto ciò che resta a Ferrara, di un ragazzo, strappato alla vita e all’amore di una piccola sfortunata donna! Assassinato con esclusiva colpa di essere di Religione Ebraica, in nome di putridi, falsi ideali: sventuratamente non ancora scomparsi del tutto!

FINE

Maurizio Musacchi

(Traduzione in Ferrarese.)

 

TERESINA “ QUATARGÀMB”

 

Parsunàĝ priηzipàl ad stà stòria, l’è ‘na dunìna, ciapàda purasà màl dal destìη, int al còrp e int al sentimént più sémpliz : l’iηviśióη ach gh’ò sémpar dnàηz aj mé òç, l’è dnà creatura piculìna clà camìna piàη pianìη, pugiàda a dó stampèll a trì pié, par stàr tacà a téra mèj, faśénd acsì da gàmb ad risèrva. ‘Na brutìsima malatié, al l’à ruinàda fiη da putìna faśéndla dvantàr zòpa, custriηzéndla a èsar schiàva ad dó zanéti. Par stà so’ figùra ad ad dólz “ragn” umàη, l’è stà ciamàda con scutmàj fraréś: “Quatargàmb”, tànt piη ad cativèria qunt iηduinà.

Quàtar j’éra il gàmb chi la tgnéva iη pié da sémpar: dó ill sò, e chi i’altri artificiàj.

La stàva int n’apartamént a piàη teréη in via Teranòa a Fràra

A l’ò tnusùda parché, al piàη ad tcióra dla sò cà, agh stàva di mié zii ché po’ i s’è trasferì s’al Làgh ad Gàrda tgnénd l’apartamént iη zità. I m’éva dà ill ciàv dl’apartamént coηl’iηcàrich ad cuntrulàr i vari impiànt, la pòsta, ill bulét a àltar. Ad tànt iη tànt, andava iη ch’al pòst, mò al prìm źìr ad ciàv, intànt ché a varzéva al purtóη ch’al dàva slà stràda, Teresina l’éra zà slà fnèstra clà dàva int l’andróη, par salutàram, mó anch par controlàr chi gnéva déntar, curiosità grànda par ill parsóη aηziàηi e in da par lór, uη mìst d’intaréś e ad prudéηza:

-El lù Sgnór Maurìzio?- Sibéη ché la méva zà vist e tgnusèst.

A santìva da l’iηtèraη, paś strapgà chi s’avśinàva pòianìη vèrs la pòrta dal so apartamént, po’ a saηtìva burdigàr int la ciavadùra dal so iηgrès, ècla pugiàda al so’ iηseparabil stampèll cumparìram “Quatargàmb”. Dòp al naturàl e ubligatóri mòd ad salutàr, l’éra normàl scambiàras ill dmànd ad cùm l’andava la salùt.

Dill vòlt l’am ciamàva iη cà, par cambiàr ‘na qualch lampadìna bruśàda, o altar laursìη. Purasà vòlt am cuηviηzéva ché forsi, j’éra iηvantà par far iη mòd ad quaciàr uη póch dlà so’ solitùdin; che però l’aη gh’avrév avù biśógn ad scùś par faram aηdar déntar iη clà cà; mì a l’ò fàt sémpar ad vluηtiéra, par la mié naturàl curiośità int i cuηfrónt dì vèç. Am piaśéva siηtìr stòri e testimoniàηz dnà vòlta, iηmasciàdi cóη ‘na qualch dóś ad ptegulò, int i cuηfrónt ad quàlch parsunàĝ burghéś dàl zéntar stòrich, o dlà Fràra “bene”; mó a m’iηtarasàva àηch stòri ad zént normàl. Tereśina, sibéη ché la gh’és ‘na zèrta età, e l’infermità ché l’as strapgàva da sémpar dré, e ‘na quàlch operazióη pśóta ché l’éva supurtà int j’ann, la gh’éva i cavì négar e la fàza lìsa séηza rugh. L’acumpagnàva al so’ ciacaràr coη uη suriśiη maliηcònich, uη póch sbargnìf; l’am arcurdàva i ritràt dì pitór gràη pitùr dal Rinascimént. Còn la cuηfidéηza ché la m’éva dà e a rispòsta ad zérti mié provocazióη schérzóśi, a propośit ad so’ amór ad zventù; quànd ché a gh’ò dimustrà amirazióη par la sò bléza, la m’à cuηfidà zért quèj privà e l’è stà n’altra lezióη ad vìta; una dill tànti ché is putrév cuηtàr j’aηziàη sé agh désan a mént còη umiltà e brìśa còη dlà pùza sóta al nàś:

-Agh fagh vèdar che anca mì a gh’ò avù n’ambròs!-(Le faccio vedere che anch’io ho avuto un fidanzato.)

L’am l’à dit iη dialèt,(cmè sémpar,) e mi a gh’ò dà a mént ad vluntiéra parché dlà mié liηgua agh sóη inavajà, po’ acsì ill nòstrar ciacaràd j’è stàd sémpar più ciàri.

L’à avért uη casét e l’à tirà fóra uη vèç album ad fotografii, uη ad quéj cóη la copertina maróη fàta ad pèl. A l’à vért pianìη pianìη, l’a fujà dó o tré pàgiη, po’ la s’è farmàda, pugiànd ill màη s’ill fazàd; po’ squàś cumpagnànd al gèst dnà tìmida caréza, suspirànd, l’à squacià coη càlma ill vèç imàgiη. Lié la j’éra bén iη vìsta, int ill fòto da ragazéta, ché a dir la vrità, sibéη ch’j’éra ritucàdi da uη bràv stòrich fotògraf dlà Fràra dnà vòlta, ill mustràva ‘na fàza bèla da màt.

D’j’altri foto i la ritraéva còη partént e amìĝh, iη zìr par la zità; opùr scatàdi intànt ché l’éra impgnàda in uη di póch viàz ché la faśéva in ch’j’ann. Agh n’éra ad quéli ché i la ritraéva còη uη ragàz purasà bèl, scùr ad carnagióη, cavì lìs è impumatà, “àla Rabagliati”. L’éra santà ad fiàηch a liè zóvna, sémpar purasà fotogènica. Qualch d’una al la figuràva iη pié, sénza zanét e lu, ad bànda al la tgnéva strìca forsi par brìśa fàrla cascàr, mó forsi àηch par uη gèst d’amór.

Ill fàz stracuηténti, ill traduśéva n’iηviśióη ad frésca, giovanìl, flizità…

L’à scumiηzià a cuηtàr, spipulànd a tèsta chìna, su ch’àl contenitór d’arcòrd pardù int al témp…

La m’à cuntà la stòria da ch’àl źuvnòt: Lele, scutmàj ciapà dal nóm tipicanént abrèj. Capstìpit dnà famié ad sgnurùη burghéś frariś. I s’éra tgnusèst int la pasticceria storica ad via Mazìni, iηdóv lié l’aηdava dill vòlt a cuηsumàr al so’ unich “vizi”: soquànt past e ‘na tàza ad ciculàta calda. La ciacaràva piàη, ché a paréva clà cuηtàs uη sógn, e al Dialèt Fraréś l’advantàva squàś poetich, aηch par la teneréza ad còm l’am à dìt dal so’ prìm iηcóntar, parché l’éra póch cuηvinta ad fàr béη a càusa di sò problèma fìśich e la paηsàva còη osesióη: “ ‘Sa vràl màj da mì”?

Intànt però ill lèz anti abrèj e po’ la matìśia dlà guèra ché l’éva ciapà l’Europa. J’abrèj frarìś i scapàva, o j’è stà deportà int i càmp ad starmìni, ché da là j’è po’ turnà iη póchi.

Lù al n’à vlèst brìśa sluntanàras, cuηvìnt d’èsar protèt par zèrt mutìv ad famié, anch parché so’ popà al gh’éva mèrit pulitich e e ad cumbatént par quél ch’l’éva fàt int la Graη Guèra.

Purtòp al s’è sbaglià! Uη brùt dì, j’éra iηsiém, l’è stà ciapà da dó fàz lóschi e cargà ad fòrza int n’avtomòbil négra, iη via Mazini dnàηz àla “sò” pasticerìa intànt ché lié, guardànd mraviàda blucàda è imputénta, a gh’à cujèst uη brùt preśàĝ; infàti , diśgraziatamént … an l’à màj più vìst!

L’a lasà lì ad cuntàr la stòria, ill màη sl’album ill tarmàva, l’à ciapà uη fazulét e als l’è purtà int j’òç, par sugàr ‘na làgrama, po’ coη uη mìst ad vargógna, l’à arbasà la tèsta e:

-Scusèm Sgnòr Maurizio, mò a gh’ò al rimors che ch’al ragazét al sia mort par colpa mié e tut il volt ch’am vién a mént ad lù am vién da zigàr!- (Scusatemi Signor Maurizio, ma ho rimorso che quel ragazzo sia morto per colpa mia, e tutte le volte che mi ricordo di lui, mi viene da piangere-) A j’ò zarcà ad fàragh curàĝ, arcurdàndagh i culpéul ad quéla, e ad tànt altri mòrt, ch’j’è da zarcàr béη luηtàη dàla so cà ad via Teranóa, e iη gh’à brìśa ad nóm Tereśina!

A sóη stà iη cuηfidéηza par di ànn coη Tereśina. La m’à cuηtà d’j’àltar stòri, ‘na qualch d’una dramàtica altri ad pìcul ptegulò ad bórgh; pur cardénd póch int quéli pasàdi, a j’ò sémpar scultàd coη gràη iηtarés.

Uη brùt dì, “Quatargàmb”, l’à dezìś d’aηdar a atruàr i parsunàĝ ché iη gh’éra più, la gh’è andàda iηdurmaηzànas par sémpar: una mòrt dólza, al luηgh “sóη etèran da ché aη s’pol brìśa scapàr. Qualch dì dòp la so’ scumpàrsa, andànd par càs int l’apartamént di mié zii, a j’ò vìst la porta ad cà dlà Tereśina avèrta, iη cà a gh’è la sò nvód, fióla ad sò fradèl, ché purasà vòlt aveva vist gnìr a truàr la vècia zia. A sóη aηdà déntar par salutarla, faśéndagh il normal coηdogliaηz. A j’ò vìst sùbit s’àl tàul, al vèç album ad fòto, a gh’ò dmandà, e la m’à dà al parmès ad putétéral guardàr iηsiém. Int l’ulma pàgin, farmàda cóη ‘na spìla da balia, a gh’éra ‘na busta intestàda dal Cmànd Americàη iη Germania, col ból pustàl iη data vìnt avrìl milnovzéntquarantatrì. Déntar, uη fuitìη iηzalì, scrìt cóη ‘na matita copiativa. A séη riuscì a lèzar quél ach gh’éra déntar tgnéndal iη su vèrs la fnèstra tant ch’l’éra smalvì, póch fràś ché ill m’à fàt gnìr la pèll d’òca:

<< Mia dolce Teresa, se riuscirò a tornare da quest’inferno, ti sposerò! Ti amo (qui da dove scrivo non posso permettermi di mentirti), e non trovar scuse per quel tuo piccolo difetto! Ti voglio bene come sei, e se mi ami anche tu come mi hai detto tante volte, ci sposeremo. Io voglio tornare, voglio vivere, “devo” tornare: aspettami! Tuo eterno amore, Lele!>>

A vàgh fóra dàla cà dlà Teresina e a sóη uη puctiniη cmè sunà, l’è sìra. A ciàp a destra, par via Mazìni, quiaś vóda. L’è al tùran dlà saràda dal dopmezdì dill butégh. Ad cò, inframèz àla fumàna, am pàr ad védar dó figùr: uη ragàz alt dai cavì impumatà, cón ad fiàηch ‘na dunìna clà camìna piàη pianiη, aiutàndas coll zanéti. Am càv e a pulìs j’uciàj, a mi mét iηcóra, dnàηz a miì aη gh’è nisuη … s’oja vìst, uη miràĝ? Aliév d’istint j’òç àla mié dèstra, vèrs la lapida fisàda al mùr dlà Sinagòga cóη la lista di deportà abrèj mòrt; al cugnóm ad Lele als lèz ciàr e nitid framèz aj tànt àltar. L’è tut quél ach rèsta a Fràra d’uη zuvnòt, strapà àla vìta e a l’amór dnà pìcuala e sgraziàda dòna! Asasinà coη la còlpa unica d’èsar ad Religióη Ebraica, iη nóm ad schifóś, fàls ideàl: par gràη svantùra iηcóra brìśa sparì dal tut!

FIN

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