Attualità
19 Aprile 2015

Cosa mi è piaciuto de “La rosa di fuoco”

di Elena Bertelli | 5 min

La prima mostra che ho visitato a Palazzo dei Diamanti nel 1992, è stata anche la prima di cui io conservi un vivido ricordo, avevo 9 anni. Mi ci portò la nonna Adriana e alla fine del percorso mi regalò un libro che ancora conservo: “Chagall: violinisti sui tetti, asini in cielo”.

Da allora si sono susseguite molte visite e, crescendo, ho iniziato a spostarmi per visitare mostre e musei lontani, maturando la passione per l’arte e la consapevolezza che non si conoscono abbastanza una città, una comunità, se non se ne assapora la produzione artistica.

Sono passati 23 anni ma l’emozione della scoperta che mi accompagna ogni volta che supero quella meravigliosa facciata di bugne spigolose su via Ercole I D’Este è la stessa, così come il senso di pienezza e soddisfazione che provo al termine del percorso espositivo. Arrivare all’appuntamento con una nuova mostra al Palazzo dei Diamanti totalmente impreparata fa parte del mio rituale e così è stato ieri, quando ho visitato La rosa di fuoco. La Barcellona di Picasso e Gaudí.

Credo che, come spesso accade, critica e pubblico, nei prossimi mesi, si divideranno su questa esposizione. Ci sarà chi avrà apprezzato la possibilità di conoscere opere e artisti sconosciuti ai più, accompagnati da preziose testimonianze del lavoro di grandi maestri come Picasso e Gaudì e chi invece lamenterà l’assenza di grandi capolavori cui, da sempre, Ferrara Arte ci ha abituati. Non solo non mi troverei d’accordo con tali ipotetici giudizi, credo anche che rispecchino un approccio errato verso questo progetto espositivo.

Ogni sala di Palazzo dei Diamanti, contiene – in un allestimento gradevole, funzionale, che suggerisce gli altissimi livelli raggiunti dalla conduzione della fondazione in concerto con i curatori – accorpamenti di immagini che nel loro insieme suggeriscono lo spirito del tempo.

Dipinti, affiches, fotografie, sculture e modelli architettonici, oltre a mostrarsi singolarmente, nella loro bellezza, evocano la complessità della stratificazione sociale, di cui gli artisti stessi furono protagonisti, nella Barcellona a cavallo tra il 1800 e il 1900.

Da un lato il modernismo ha generato straordinari capolavori strutturali, sinonimo di una spinta innovativa che con entusiasmo reinterpreta il passato in una sintesi estremamente originale, capace ancora oggi di stupire l’osservatore che si imbatte in capolavori quali La Pedrera, Casa Batllò o la Sagrada Familia: è la Barcellona che guarda al progresso in atto nelle altre grandi capitali europee e che non vuol essere da meno, è la capitale che ospita, nel 1888 l’Esposizione Universale.

Questa modernità si ritrova anche nelle arti minori, votate alla produzione di materiale pubblicitario, che ho trovato di una bellezza mozzafiato, anche, e soprattutto, nella misura in cui è chiamato a rappresentare tematiche scomode ma urgenti come la cura alla sifilide o prodotti che incarnano l’ideale del vizio, rappresentato dall’avvenenza un po’ sciupata di donne stupende i cui occhi si perdono nel vuoto.

Ho trovato il titolo “La rosa di fuoco” evocativo di un contrasto, tra un simbolo di delicatezza, amore, passione positiva, e una forza distruttiva, che arde e non lascia che cenere ,al suo passaggio. Questo contrasto è ben visibile nelle opere in mostra: la vivacità del colore nelle grandi tele del paesaggista visionario Joaquim Mir e la grazia dei pannelli decorativi per una rappresentazione Wagneriana di Adrià Gual, si scontrano con l’orrore e la crudezza delle istantanee scattate nei quartieri popolari distrutti dalla soppressione del 1909, durante la settimana tragica.

Il fervore creativo modernista, fatto di un immaginario fantastico e di sogno, trova il suo contraltare nei ritratti di figure femminili distese, accasciate, come sconvolte da qualche terribile presa di coscienza di Santiago Rusiñol e nella forza espressionista della “femme fatale” ritratta nella sala 6 da Picasso e Anglada Camarasa: figure femminili deformi, simili a mostri dotati di artigli malefici – si veda la mano della Dama con il marabù, dipinto che ho trovato di una bellezza davvero spaventosa.

La mostra si conclude con la rappresentazione di un sentimento del tempo tutt’altro che positivo: è il colore blu a predominare, cromia scelta dal giovane Picasso e da Isidre Nonell per raccontare la condizione dei miserabili, gli uomini e le donne costretti a vivere ai margini di una società dominata dai forti contrasti che giunsero insieme all’ondata di progresso e industrializzazione.

La Rosa di fuoco è per me un’esposizione che deve essere percorsa con una visione strabica: un occhio rivolto alle particolarità dei singoli lavori e alle diverse personalità degli artisti e un occhio verso ciò che ogni opera rappresenta, calata nel proprio contesto. La mostra di Palazzo dei Diamanti credo riesca molto bene nel suo compito di elevare le immagini a testimoni incorruttibili del proprio tempo e l’opera che per me assolve più di tutte a questo compito – e quella che preferisco – è il ritratto del pittore Casagemas morto suicida, eseguito dall’amico Picasso, sconvolto dall’evento.

La forza rappresentativa di questo olio su cartone sta nella sua crudezza, nel suo essere estremamente attuale, a tal punto da venir associata, nella mia mente, alla fotografia di un ragazzo esanime, con la testa posata su un bagno di sangue, ormai entrata nell’immaginario di tutti noi, più di ogni altra ingiuria blaterata dai detrattori dell’omicidio Aldrovandi, dal 2005 a oggi.

Ed ecco che sono arrivata al punto, a dire quello che secondo me è il motivo principale per cui questa mostra, e molte altre con essa, debbano essere viste: l’arte, il manufatto prodotto dagli uomini, è tutto ciò che sopravvive loro, che porta avanti nel tempo la memoria di ciò che è stato, impedendo di perdere il filo della storia, di comprenderne i fondamenti. Pittura, scultura, architettura, fotografia, teatro, musica e cinema sono importanti aldilà della valenza estetica. Per questo dobbiamo essere assetati di arte, guardarla, imprimercela nella mente, educare ad essa i bambini e preservarla da ogni attacco. E questo vale per tutte le opere, quelle che riportano alla luce i fasti del passato così come quelle che fanno rivivere nella nostra memoria i periodi più bui. Non ci sono siti archeologici nel mondo che possiamo permetterci di lasciare in mano ai barbari, non ci sono patrimoni dell’umanità che possano essere abbandonati a cattive gestioni o obelischi con incisioni da cancellare, perché noi umani appassiamo in fretta come una rosa, la nostra presenza terrena è fugace come un legno divorato dal fuoco e l’arte che abbiamo prodotto è tutto ciò che resta di noi.

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