Attualità
2 Dicembre 2013

Delle cose taciute

di Elena Bertelli | 3 min

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Con alterna chiave

 

Con alterna chiave
tu schiudi la casa dove
la neve volteggia delle cose taciute.
A seconda del sangue che ti sprizza
da occhio, bocca ed orecchio,
varia la tua chiave.

Varia la tua chiave, varia la parola
cui è concesso volteggiare coi fiocchi.
A seconda del vento che via ti spinge
s’aggruma attorno alla parola la neve.

 

Paul Celan, Di soglia in soglia, 1955

 

 

unnamedLe cose taciute spesso vogliono emergere contro la volontà di un sofferente custode. Soffocarle non fa che rimandare la rottura della quiescenza. Come un’emicrania che, indesiderata, arriva e pulsa nella testa e la insidia finché non la si impara a conoscere e benvolere, malgrado tutto. Solo così ci sarà un abbandono, una tregua concessa dal dolore.

Le opere di Silvia Ungaro sono il luogo in cui le emergenze si manifestano e con le quali l’artista deve fare i conti. In queste superfici stratificate affiorano memorie e immagini che vengono sedate e manipolate per raggiungere, con esse, una conciliazione.

Le opere dalla forte componente materica sembrano provenire da un lontano passato. Lo si percepisce davanti a superfici sulle quali il passaggio del tempo ha lasciato impronte fossili, come in “e intorno al mare”, oppure osservando frammenti di vetri rotti, resi inoffensivi dallo strato bianco gessoso, che ne annulla la trasparenza, come un velo steso su un corpo lasciato in pace, nel suo quieto rigor mortis.

Dolore, speranza, tenacia ognuno di questi stati d’animo, si sono incontrati e confusi entro lo spazio di una tela, lembi ricuciti, dove il rammendo è rosso o nero – in contrasto con il tono delle stoffe che unisce – per mantenere vivo il ricordo della frattura ormai ricomposta. Il filo carminio attraversa stracci bianchi che in alcuni punti hanno assorbito macchie di pittura ora delicate e sbiadite, ora intense e sanguigne, come si vede in “Ultimo viaggio” e “La mia ‘amica’ Emy C.”.

Il Bianco è stato il punto di partenza, per l’autrice, che ha trovato nella riscoperta della pittura un nuovo approccio al fare arte, non più inteso come pratica funzionale alla realizzazione di un prodotto, come è stato fino ad oggi, per via del suo mestiere di graphic designer e artista del libro, ma come azione svolta per un fine puramente estetico che risponde a un’esigenza espressiva.

La tela è bianca, in partenza, come una mattina immersa nella nebbia invernale, finché da quella foschia non emergono segni, frammenti, rimasti intrappolati sotto la superficie molto tempo fa. Il lavoro dell’artista è paziente archeologia: scavare, grattare, soffiar via polvere e riportare alla luce il passato.

La superficie dell’opera finita è (prevalentemente) bianca, perché bianche sono le lenzuola, trafugate dalla casa dischiusa della nonna. Stoffe una volta utili a coprire, oggi adagiate sulla tela e a loro volta coperte da uno strato di pittura bianca che, lontana dall’essere una velatura, è piuttosto uno spesso strato di biacca che cela e protegge dall’oblio un feticcio personale.

A ben guardare da vicino le superfici, si scoprono questi e altri escamotage, attraverso i quali l’artista “trova la parola cui è concesso volteggiare coi fiocchi”, sulle cose taciute, senza svelare mai, fino in fondo, gli oggetti significanti di una sfera personale e per questo inintellegibile.

Ed è senza dubbio questa componente di delicata sospensione, propria dei fiocchi di neve – scomodando per l’ultima volta Celan – in contrasto con i violenti scoppi di rosso, che conferisce particolare valore al lavoro di Silvia Ungaro, riportando la quiete sul luogo in cui si è consumata la battaglia.

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