Attualità
5 Novembre 2013

Vorrei la pelle bianca

di Luca Bernardini | 6 min

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skin1Tornato a settembre in Italia per riprendermi da malaria e dengue contratte durante il periodo monsonico, non ho potuto non notare con una certa invidia le abbronzature perfette dei più che mi circondavano.

Pelli cioccolato, mogano, caffelatte da post vacanza che denotavano benessere sia dal punto di vista salutistico che estetico. Soprattutto se confrontate con il mio pallore dovuto a motivi genetici (sono un fototipo A: mi abbronzo poco e niente), temporanei (convalescenza da due malattie tropicali), contingenti (il fatto che a Mumbai sia sempre caldo non significa che ci sia il solleone perenne, durante i Monsoni le nubi coprono il cielo per tre mesi almeno, da giugno ad agosto).

Pallore che impietosamente mi hanno fatto notare molti miei conoscenti tra il preoccupato (sei sicuro di stare bene adesso? No, la malaria non è contagiosa) e lo scherno (ma stai sempre in casa? Aridaje, ci sono i Monsoni!).

Tutta questa lunga introduzione di fatti miei per entrare in una riflessione di come il colore scuro dell’epidermide e il concetto di abbronzatura che abbiamo noi italiani sia agli antipodi rispetto al pensare comune in India. E di come la bianchezza non sia considerata antiestetica o sintomo di malessere e stress. A volte il vero e proprio pallore non viene neppure notato: il mio dentista non si è accorto che stavo svenendo, nonostante avessi raggiunto una colorazione blu tenebra…

Scordatevi dunque creme e oli solari, il doposole intensificatore di abbronzatura, doccia bronze, solarium, lampade e altre diavolerie della tintarella a tutti i costi. Canzoni come “Vorrei la pelle nera”, “Abbronzatissima”, “Sei diventata nera” non avrebbero senso qui. Vige il “sole vade retro!”.

La cosmetica indiana (a parte l’onnipresente effetto “antietà”) è tutta concentrata nel combattere l’inscurimento dell’epidermide da esposizione solare, se non addirittura nello “sbiancamento” della pelle. I “mumbaiani” frequentano la spiaggia all’alba o al tramonto, rigorosamente vestiti, e mai e poi mai si metterebbero ad abbrustolire come la stragrande maggioranza degli italiani fa, e per i più svariati motivi. In Italia l’abbronzatura potrebbe essere presa come indicatore esistenziale: l’esteta, il pigro, il salutista…

Ma questa argomentazione un po’ frivola ci porta invece a considerazioni storiche, sociali e culturali sul concetto del colore della pelle da parte degli indiani.

A parte le creme “sbiancanti” reclamizzate in tv, la cosa che mi ha colpito di più sono stati gli annunci per trovare l’anima gemella sui giornali. Sono una finestra interessante (oltre che a volte esilarante dal nostro punto di vista) sulla società indiana moderna.

Mi spiego. Le inserzioni matrimoniali sono divise secondo numerose categorie. Caste: brahmin, kshatriya ecc.; religioni: hinduismo, islam, cristianesimo ecc.; professioni: dottori, militari, ingegneri, avvocati ecc.; lingue: bengali, punjabi, sindhi, hindi ecc.; e poi altre classificazioni ancora.

Insomma i canoni da rispettare e la selezione che ne deriva fa sembrare l’ammissione alla normale di Pisa una pura formalità.

A parte questi aspetti ai miei occhi “flolkloristici”, una cosa all’interno degli annunci ha attirato la mia attenzione. Tra i soliti elementi descrittivi come altezza, età, professione, hobby, aspetti della personalità e così via, ne ricorre uno il cui significato all’interno del testo in parte mi sfuggiva: “fair skin”. Nella mia testa traducevo la cosa con “pelle attraente”, e mi chiedevo, perché fermarsi all’epidermide? Non basta scrivere attraente e stop? E’ così importante avere pelle liscia come una pesca, tanto da specificarlo nella metà degli annunci?

Ovviamente avevo frainteso.

Bisogna cogliere cosa è per gli indiani l’aggettivo fair=attraente relazionato alla pelle. E in questo caso una pelle attraente è CHIARA, punto. Non liscia, non morbida, non senza irritazioni, acne o altre imperfezioni cutanee. Semplicemente chiara.

Riguardo le ragioni storiche si deve risalire al terzo millennio a.C. con la penetrazione e la successiva conquista da parte degli arii (o indoeuropei) dell’India. Il meccanismo castale fu inizialmente usato per tener separati i ruoli dei dominatori da quelli dei dominati, com’è chiaramente indicato dal termine sanscrito varna (colore) che indica tradizionalmente le principali suddivisioni e che riflette l’originaria differenza razziale tra indoeuropei (chiari) e indigeni (scuri), marcando in maniera ancora oggi percettibile, nell’India del nord, il colore della pelle degli appartenenti alle due caste superiori rispetto agli altri.

L’eco del retaggio castale (ancora ben presente nelle aree rurali) si riflette oggi a livello delle metropoli nel senso estetico. E qui non si può fare a meno di tirare in ballo Bollywood, maître à penser della cultura nazionalpopolare. Casting, makeup, luci degli studios e fotografia fanno sì che gli attori, ma soprattutto le attrici, abbiano la pelle quasi eterea se non malaticcia, ai nostri occhi, “fair” secondo il gusto locale.

Le probabilità di incontrare per strada una persona di quella tonalità di pelle a Mumbai è la stessa di avere in Italia Monica Bellucci o Raul Bova come vicini di casa.

Siamo di fronte dunque a canoni estetici che hanno radici in un passato remoto, ma che sono riconfermati con forza oggigiorno.

C’è chi si ribella a questo stato di cose molto simili alla vera discriminazione, un po’ come succede nel mondo delle top model per la magrezza. L’attrice bollywoodiana Nandita Das ha promosso nel 2009 la campagna “Dark is beautiful” , la quale combatte il preconcetto che la bellezza di una persona sia determinata dalla tonalità della pelle e celebra la diversità in senso etnico-estetico. La campagna http://www.darkisbeautiful.in/ è tuttora attiva, ciò significa che è ben lungi dall’aver raggiunto l’obiettivo. Le attrici sul set hanno ancora la pelle “fair”, come le modelle sulle passerelle sono ancora al limite dell’anoressia.

Un esempio su tutti. Lo scorso settembre è stata eletta Miss America Nina Davuluri, di origini indiane. Sul web si è scatenata una diatriba al limite del razzismo da parte di molti americani che non si sentono rappresentati da una miss dalla pelle di quel colore. Molti opinionisti dell’ambiente della moda e del cinema indiani, anziché indignarsi per questa reazione xenofoba, hanno rincarato la dose affermando in pratica: “Con una pelle così, Nina Davuluri non sarebbe stata eletta nemmeno Miss India” (sic!).

Allora niente da fare, le ragazze sognano di essere bianche come il latte, i “visi pallidi” non hanno difficoltà a trovare una partner, e se tutto va per il verso giusto si possono aprire le porte del jet set.

Ultima frontiera. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità ci sono circa 19 milioni di coppie sterili in India. Molte di esse ricorrono alla fecondazione in vitro, poiché nel Paese l’istinto alla procreazione è di gran lunga più forte rispetto a quello diciamo… Occidentale.

Ma quando le coppie varcano le soglie dell’istituto per la fecondazione assistita, non si limitano ad augurarsi il meglio per la tanto agognata progenie, il 70% di essi chiedono che il donatore/trice di sperma o ovulo abbia pelle chiara e occhi blu. Pagando il tutto si intende. Si parte da 1000 dollari Usa per donatore dell’Est Europa o spagnolo fino ai 5000 dollari per uno dalla Germania.

Questo commercio sta crescendo in maniera così veloce da suscitare molte questioni etiche. Alcuni chiedono il bando all’importazione di seme dall’estero.

Direi che la canzone “Tintarella di Luna” non avrebbe grossa difficoltà a entrare nei cuori degli indiani.

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