L'inverno del nostro scontento
20 Maggio 2013

Cattivi maestri e sepolcri imbiancati

di Girolamo De Michele | 8 min

L’incomposto scompiglio scatenatosi per la presenza di Toni Negri a Ferrara era prevedibile, atteso, e fors’anche sperato. È bastata una sola frase il cui senso era chiarissimo – non erano giustificabili i metodi delle Brigate Rosse, ma era giusto essere contro il PCI –, allungata e deformata come il chewingum, per riportare in auge la teoria della generazione sedotta dalla violenza per colpa del cattivo maestro che pontificava dalla sua “comoda cattedra”: come se una cattedra universitaria fosse più, o meno, comoda di uno studio avvocatesco o di una poltrona di sindaco.

Teoria rassicurante: perché rimuove la violenza dello Stato, le decine di operai e studenti ammazzati nelle piazze e nei cortei dalle forze dell’ordine con licenza di sparare per uccidere, che fecero credere alla necessità della violenza per difendersi dalla violenza dei gendarmi. Chi avrà pagato la pensione al gendarme che ghignando sul cranio spappolato di Antonino Zibecchi, falciato da un blindato dei carabinieri, dichiarò ridendo a un giornalista: «non credevo che un comunista avesse tanto cervello»? Chi avrà finanziato l’attività commerciale aperta all’estero dal carabiniere che sparò alle spalle Francesco Lorusso su ordine del ministro democristiano Cossiga, che voleva il morto – e lo ebbe – alla vigilia della grande manifestazione del 12 marzo? Quali contribuenti avranno pagato lo stipendio al gendarme travestito da autonomo che sparò con una pistola non d’ordinanza su Giorgiana Masi?

Teoria autoassolutoria: perché cancella le stragi di Stato operate dalla manovalanza fascista al servizio di quei Servizi Segreti che con ipocrisia si definiscono “deviati”; i tentati colpi di Stato e le schedature – a partire da quelli e quelle del generale Di Lorenzo, su ordine del presidente Antonio Segni – degli oppositori nella politica, nei sindacati, nell’informazione; l’infiltrazione della Loggia P2 nei vertici dello Stato; le responsabilità della classe dirigente democristiana, che se non era complice era imbelle – in una parola, quella strategia della tensione che (con le parole di Aldo Moro) «ebbe la finalità di rimettere l’Italia nei binari della “normalità” dopo le vicende del ’68 ed il cosiddetto autunno caldo», e sulla quale «non possono non rilevarsi, accanto a responsabilità che si collocano fuori dell’Italia, indulgenze e connivenze di organi dello Stato e della Democrazia Cristiana in alcuni suoi settori». E che fece credere a un’intera generazione che non erano possibili vie pacifiche per cambiare l’Italia.

Teoria infame: perché nega a un’intera generazione la capacità intellettuale e politica di comprendere l’enorme ingiustizia di classe su cui poggiava l’Italia, lo sfruttamento feroce del lavoro con salari tra i più bassi d’Europa, col quale fu costruito il “miracolo italiano”; la strage dei lavoratori morti sul lavoro per assenza di misure di sicurezza – alla Montedison di Marghera un documento aziendale raccomandava di «non manutenere, o manutenere il meno possibile» –; le malattie professionali, i tumori, le leucemie tenute nascoste per non intaccare il profitto (come la Solvay di Ferrara); l’enorme divario tra la ricchezza prodotta e quella redistribuita. E negando la percezione dell’ingiustizia, nega – qui sta l’infamia nella sua interezza – la volontà di creare un mondo più giusto da parte di una generazione che si trovò schiacciata tra il potere democristiano che l’ingiustizia difendeva, e il PCI che davanti all’ingiustizia voltava gli occhi dall’altra parte e gettava nel fango le proprie bandiere e i propri valori, per poter avere dalla DC il permesso di accedere al potere all’interno delle regole del potere democristiano. Accettando, ammantandoli con la retorica dell’austerità, l’ondata di licenziamenti e ristrutturazioni sulla pelle degli operai che causarono la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro, facendo di Torino, città-simbolo della classe operaia, la città d’Europa col più alto numero di suicidi, quasi tutti fra chi era stato buttato fuori dalla fabbrica.

La favola del cattivo maestro, dell’incredibile potere di convincimenti dei suoi esili e talora criptici libretti che quasi nessuno ha letto (ma di cui tutti credono di conoscere il contenuto per averne sbirciato una o due frasi estrapolate a caso), ridistribuì i ruoli: i buoni tutti di qua, i cattivi tutti di là. Come se, per dire, qualcuno non avesse avuto responsabilità nell’aver lasciato alle Brigate Rosse il compito di fare il “lavoro sporco” eliminando Aldo Moro. Come se in Sicilia, mentre Andreotti governava a Roma, altri andreottiani e democristiani “punciuti” – da Gioia a Lima a Ciancimino a Nicoletti allo stesso Andreotti – non fossero collusi con il capo della mafia Stefano Bontate; come se la mafia, eccezion fatta per le bombe contro i giudici, fosse una realtà con cui si potevano stringere accordi, come se i morti per mafia (relegati nelle pagine interne della cronaca) non fossero, proprio negli anni cosiddetti “di piombo”, maggiori di quelli “di terrorismo” (che invece erano in prima pagina): e tanto peggio per quei pochi – da Piersanti Mattarella a Pio La Torre – che non obbedivano agli ordini di farsi complici, o fingere di non vedere. E peggio ancora per quelli come Peppino Impastato e Mauro Rostagno, di cui si può parlar bene solo da morti, e ancora ancora…

Si è condannata una generazione alla confessione pubblica e perpetua, a un senso di colpa inestinguibile: come se questa generazione non avesse fatto da decenni, in modo pubblico, i conti col proprio passato, la propria violenza, i propri errori; come se questa generazione non avesse subito e scontato nelle patrie galere un carico di anni di gran lunga superiore a quello che fu inflitto ai fascisti nel dopoguerra, e ai briganti (reali e presunti) dopo l’unità d’Italia.

Mentre, per fare qualche esempio, ai dirigenti politici degli autori della strage della stazione di Bologna iscritti alla sezione romana Monteverde del MSI-Fronte della Gioventù – il segretario romano Maurizio Gasparri, il segretario nazionale Gianfranco Fini – non sono mai state fatte presenti le loro responsabilità quantomeno morali per aver allevato terroristi dei quali, misteriosamente, mai avevano avuto sentore. E lo stesso si potrebbe dire di Pino Rauti, fondatore dell’organizzazione Ordine Nuovo responsabile della strage di piazza Fontana, che ha fatto in tempo a sistemare una figlia alla RAI e un genero a sindaco di Roma senza aver mai visto le pareti di una cella.

E allora raccontatevi pure che è tutta colpa del cattivo maestro, invece di chiedervi come mai governanti, magistrati, forze dell’ordine, tutti “dalla parte giusta”, una volta sconfitto il terrorismo non abbiano puntato le proprie armi contro l’ingiustizia, perseguendo con uguale, implacabile “senso dello Stato” le fabbriche della morte, le organizzazioni mafiose che assicuravano il consenso politico ed elettorale, i padroni che sfruttavano speculando sulla sicurezza nelle fabbriche. Perché gli autoproclamati “giusti” non hanno fatto giustizia, invece di inoculare il virus dell’ingiustizia, della sua inevitabile necessità, fingendo di ignorare che la crescente e generalizzata precarizzazione della vita e del lavoro, l’aumento della differenza tra le classi sociali non producano morte, invalidità, malattia? Perché la differenza tra “destra” e “sinistra” istituzionali è diventata una disputa tra chi, all’interno delle stesse regole e degli stessi criteri, è “più bravo” non a rimuovere l’ingiustizia, ma ad amministrarla?

In una città che ha strade intestate a un pluriomicida cocainomane, responsabile morale dell’assassinio di don Minzoni (ipocritamente ricordato come “trasvolatore atlantico”); che ha eletto un senatore che non si vergognava di sostenere che fino all’arrivo dei nazisti la comunità ebraica a Ferrara se la passava bene, perché le leggi razziali erano applicate “all’italiana”; che ha visto quel Cossiga che in interviste e libri ha disinvoltamente elencato le violazioni delle leggi di cui si è servito per governare, finalista al premio Estense con uno di quei libri; che ha visto quell’Andreotti che ha (cito dalla sentenza) «non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi» tenere una lezione di politica; che ha visto un dirigente nazionale di un sindacato di polizia definire impunemente «maledetti bastardelli» l’opinione pubblica ferrarese; in questa città, raccontatevi pure che lo scandalo è un cattivo maestro e chi l’ha invitato (e l’osteria in cui ha cenato, la locanda in cui ha dormito, il giornalaio che gli ha venduto “Le Monde”…): è così che si costruiscono le unità nazionali!

Che poi per le restanti due ore il “cattivo maestro” abbia parlato d’altro, a parte quella tanto attesa frase buona da fraintendere, poco importa: è persino esemplare il modo in cui sono stati bollati come «eversione e violenza» i temi del comune e dei beni comuni dal dirigente di un partito, il cui interesse principale è cominciare a mettere le mani avanti per giustificare la svendita dei beni comuni prossima ventura in nome di qualche “superiore interesse della nazione” all’interno di un “rinnovato clima di responsabilità nazionale”. E se proprio sui beni del comuni il cattivo maestro ha invitato a rigettare la delega in bianco ai partiti, esortando alla riappropriazione diretta di ciò che ci spetta per diritto e auspicando «qualche fremito insurrezionale» contro l’ingiustizia, non può stupire il rancoroso tono delle reazioni, secondo solo al livore della canea fascista che si scatena contro Laura Boldrini.

Piaccia o meno a voi sepolcri imbiancati, la ribellione resta incisa sui muri dell’ingiustizia che imprigionano le generazioni condannate a cent’anni di solitudine.

Copritela di vernice: la renderete ancora più visibile.

Ridipingete l’intero muro: spiccherà ancora di più.

Raschiate l’intero muro: la si vedrà incisa ancor più chiaramente.

Per eliminarla, bisognerà buttar giù l’intera prigione.

 

Nel frattempo, il ciclo Crisi globale e costituzione del Comune prosegue al CSP “La Resistenza” con l’incontro su Passioni tristi e società del controllo, a cura del sottoscritto: migliore introduzione delle reazioni di questi giorni non poteva esserci.

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