L'inverno del nostro scontento
6 Marzo 2013

La peste del linguaggio

di Girolamo De Michele | 5 min

Inauguro oggi un nuovo blog su estense.com. Sarà un blog in cui cercherò di scrivere e discutere non solo del mondo, grande o piccolo che sia, in cui viviamo, ma anche, forse soprattutto, di come usiamo le parole per interpretarlo, esprimerlo, e spesso fraintenderlo.

Al flusso di parole in cui siamo immersi è dedicato questo primo testo. La peste del linguaggio è un’espressione coniata da Italo Calvino quando, preparando delle lezioni americane che sarebbero state il suo (incompiuto) testamento spirituale, il grande scrittore si chiedeva che cosa del vecchio millennio era meritevole di essere trasportato nel nuovo, e come sarebbe stato questo nuovo secolo. Era il 1984-85, e Calvino scriveva: «Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze».
Nei quasi trent’anni che ci separano da queste parole la peste del linguaggio ha dilagato senza freni. Le parole sono state sempre più usate per confondere invece che per chiarire, per mentire invece che per comunicare. È un’operazione raffinata, ma non difficile: lo aveva già capito Shakespeare nel creare il più malvagio mentitore di ogni tempo, quello Iago che crea con la sola forza delle parole l’adulterio di Desdemona per portare alla rovina il povero Otello. Come si fa a imputridire il linguaggio, a trasformare la sua forza comunicativa in miasmi nocivi? Basta sganciare le parole dalle cose concrete di cui sono segno, e creare legami scorretti, o truffaldini, con altre cose; oppure usarle senza alcun referente, facendole ruotare come le palle d’un giocoliere.
Un esempio che viene dal mondo della scuola (si parlerà spesso di scuola, in questo blog) è la parola “criticità”. Da 5 anni a questa parte nella scuola è diventato di moda – soprattutto ai piani alti – dire, invece che “problema”, “criticità”: come se fossero dei sinonimi. Il che non è: “criticità” è una parola che indica un particolare stato delle molecole, la condizione di un reattore nucleare, la prosimità alla deflagrazione della nitroglicerina: al di fuori della chimica e della fisica, questa parola non dovrebbe essere usata. Com’è capitato che si sia così diffusa? Perché così l’ha usata l’ex ministro Gelmini, che aveva il pessimo vezzo di parlare male (a volte perché leggeva testi scritti da altri): e se lo dice il ministro, hanno pensato in molti, sarà giusto così. Sembra una piccolezza, ma non lo è: le parole sono come scatole dentro le quali ci sono i contenuti. Ma se ci si ferma all’involucro del contenuto, alla carta che lo avvolge, se non si fa la verifica delle parole, a maggior ragione non si fa la verifica dei contenuti: e così qualunque sciocchezza, qualunque falsità diventa vera perché ci si fida dell’autorità, o dell’autorevolezza, di chi lo ha detto, e non perché abbiamo verificato di persona la veridicità di quello che ci viene comunicato.Questo modo di rapportarsi con le parole è il frutto di una servitù della mente, che a sua volta esprime un servilismo verso i potenti, verso i signori delle parole: pensateci, ogni volta che siete tentati di fidarvi delle parole che ascoltate solo perché vi fidate (o vi fa gioco fidarvi) di chi le pronuncia.
Ma c’è di peggio: ed è un altro grande scrittore, questa volta spagnolo, Javier Marías, a metterci in allarme. Era il 18 maggio 2008, e Marías, dalle pagine di “El País” in un testo intitolato Brutta e povera Italia (proprio così: in italiano lanciava l’allarme sull’involgarimento del linguaggio della comunicazione politica che stava pervadendo l’Europa. Guardando all’Italia, alla Polonia, alla Francia, Marías si era accorto dell’uso di un linguaggio senza freni che tracimava dai talk show ai dibattiti politici televisivi. E commentava: «Quello che sta succedendo in Italia – e prima in Polonia, con i gemelli Kaczynski – è molto preoccupante. Siamo in presenza di politici vincenti che hanno abbattuto la frontiera tra ciò che si può e ciò che non si può dire in pubblico. Hanno scelto di parlare e comportarsi come molti dei loro elettori, con la differenza che questi possono farlo solo in privato. Una forma superiore di demagogia consiste nel non limitarsi a dire al popolo quello che questi desidera sentire, ma addirittura nell’adottarne i discorsi e il vocabolario brutale che fino a ieri erano confinati solo nel privato, e in tal modo legittimarli. “Quello che tu dici a bassa voce io lo dico ad alta voce, davanti alle telecamere e ai microfoni, e così ti autorizzo e ti adulo. Guarda: io sono in tutto e per tutto come te, e per di più non mi nascondo. Non nasconderti neanche tu: vieni fuori, e votami!”». Sono passati cinque anni, e cos’è cambiato?
Siamo appena usciti da una campagna elettorale in cui si è data pochissima importanta ai programmi (cioè ai contenuti), ancor meno al modo in cui i contenuti erano enunciati: si sono ascoltate soprattutto parole, in modo per lo più acritico. Nessuno, ad esempio, sembra aver notato che il governatore della Lombardia, nel commentare le imputazioni di cui dovrà rispondere alla giustizia, ha usato in tono sarcastico la parola “strage” (“manca solo il reato di strage”), dimenticando di vivere nella città che ha visto esplodere la prima bomba stragista a piazza Fontana: dimostrando una totale insensibilità verso le vittime e i familiari di quella strage. E il leader carismatico di quello che è diventato il primo partito d’Italia ha girato in lungo e in largo l’Italia chiamando festosamente il suo tour “Tsunami”: una parola che è diventata nota agli italiani perché designa un evento che è costato la vita a centinaia di migliaia di esseri umani. Dimostrando una sensibilità umana, e un’insensibilità verso l’uso delle parole, pari a quella del suo avversario.
Cosa ci dicono questi due episodi, in apparenza insignificanti? Che l’alternanza politica che di fatto c’è stata non ha comportato un mutamento di stile, e soprattutto un diverso linguaggio. Le parole sono ancora usate come sassi per colpire, non come veicoli per comunicare contenuti: e se le parole non sono ancorate ai contenuti, possono essere usate per dire al tempo stesso tutto e il contrario di tutto.

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