Attualità
24 Gennaio 2013

…e forza Spal

di Elena Bertelli | 5 min

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Una cicalica suburbana deve tener fede a una promessa, tanto più se è stata scritta, sottoscritta e documentata da una fotografia. Ed eccomi qui, a servirmi – come pretesto per una riflessione sulla mia città – di questa frase impressa sul cahier des visiteurs all’uscita dalla strabiliante mostra di Edward Hopper al Grand Palais, a pochi passi dagli Champs Élysées.

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Il tempo trascorso a Parigi non si dimentica, ogni attimo è prezioso, a ogni sguardo si incamerano colori e forme così naturalmente accostati dalle mani dell’uomo e sorprendentemente pieni di grazia. E anche quando il cielo è grigio e gonfio di neve e l’aria gelida si insinua fin dentro ai capelli la vita non si ferma, chi continua a camminare stringendo una baguette croccante e i suoi pensieri rumorosi, chi sistema i tavolini nel dehors e chi si ferma ad annusare i variopinti mucchietti di spezie nella bottega magrebina. Quando nevica anche Parigi è più silenziosa, l’imbiancata piazza della Bastiglia, interdetta alle automobili, diventa conquista degli abitanti che calzano le scarpe da jogging, infilano gli sci o il guinzaglio all’amico quadrupede ed escono a compiere la loro piccola rivoluzione per riappropriarsi dei boulevards.

Impossibile annoiarsi in una città tanto grande, così affollata (con più di due milioni di abitanti è tra le 5 città più popolate d’europa e la seconda per afflusso di turisti dopo NYC), dove i siti storici dialogano con le migliori opere delle più grandi archistar e le aree turistiche si alternano a quartieri brulicanti di vita e attività economiche, gestite da gruppi di etnie e religioni diverse che convivono pacificamente, portando avanti i propri affari, offrendo con fierezza la propria merce e la propria cultura.

Così è il Marais, in cui la comunità ebraica ortodossa la fa da padrona. Così, in modo ancor più autentico, è Belleville, proprio come la racconta Pennac: la strada delle macellerie musulmane sfocia nella rue delle sartorie orientali, seguita dal succedersi dei ristoranti cinesi che conducono al Boulevard de Belleville dove la sera, mentre davanti ai portoni, le signorine dagli occhi a mandorla invitano i passanti infreddoliti a salire di sopra per vender loro un po’ di calore, i giovani si radunano al Café Cheri(e) per riscaldarsi a suon di disco music.

Ma c’è anche una zona alternativa dove le palazzine degradate sono state garbatamente occupate da gallerie d’arte, fornitissimi negozi di dischi (imperdibile il Ground Zero in rue Sainte Marthe) e da ottimi ristorantini africani, brasiliani e algerini (in quest’ultimo -Les 4 frères- non sognatevi di ordinare alcolici assieme al cous cous, ma fatevi dare la password della wi-fii e approfittate della connessione velocissima, in cambio vi basterà ascoltare con un po’ di pazienza il racconto delle origini berbere del caposala e ve la caverete con un conto davvero modesto). Verrebbe da non fermarsi mai, si vorrebbe assaporare ogni gusto, ascoltare ogni suono e fotografare ogni dettaglio e qualsiasi veduta, ma, sopra tutto, vivere la città per quello che offre ai giovani, provare a entrare nel circuito delle realtà creative e scoprire come nascono, si sviluppano e riescono a campare e ad attirare anche i turisti che cercano una meta alternativa a Notre Dame e al Louvre.

Impresa ardua, soprattutto se il tempo a disposizione è quello di un fine settimana. Ancor più difficile è non cadere nello sconforto una volta rincasati, accolti dall’umido abbraccio del grigiore padano. Mi faccio coraggio ripetendomi che passerà in fretta, immergendomi nel lavoro, negli appuntamenti mondani già tutti segnati in agenda (oh sì, il cineforum del martedì, il corso di storia della fotografia di Feedback il mercoledì, l’immancabile appuntamento con Arte Fiera di Bologna e poi tutte le serate ballerine tra club e discoteche e alcuni imperdibili concerti di band italiane che scelgono i nostri teatri – dai Baustelle ai Marlene Kuntz) e nella scrittura dei prossimi post.

Sforzi inutili, la mia saudade parigina si amplifica nel momento in cui apro estense.com e scopro con piacere l’esistenza di un nuovo blogger. Prima ancora di avere il tempo di informarmi sulla sua identità la mia attenzione è attirata dalla polemica, trasformatasi in lotta all’ultimo commento, tra musicisti e artisti di penna, gestori di locali e opinionisti che si battono per affermare l’assoluta originalità della propria vena artistica. Credevo fosse tutta una messa in scena e ho smesso di interessarmi alla diatriba, per tornare a concentrarmi sull’operosità di alcune cicaliche suburbane di cui parleremo nel prossimo post. Poi però ho capito che tutto è collegato, siamo tutti sulla stessa barca, tutti irrimediabilemnte responsabili per la piega culturale che prenderà questa città. Ferrara non è certo Parigi, non è mai stata e mai sarà New York, ma se esplode di fervore ed energia alla prima scintilla, allora vuol proprio dire che è viva. Solo, forse, non stiamo indirizzando i nostri sforzi nella direzione giusta. Insomma cicaliche! Se siete degne di questo nome, fossi in voi la smetterei di schiaffeggiarvi a colpi di post. Qui, diversamente da Parigi, è tutto ancora da costruire, la città più bella di sempre ancora non esiste, perciò prendetevi i vostri spazi, lavorate sodo e aprite le porte al vicino. Ci sarà sempre qualcuno più bravo di voi da cui apprendere e qualche inesperto da formare. C’è posto per tutti e un compito per ognuno.

Una persona che abita qui ma guarda lontano, anche più lontano di Parigi, un po’ di tempo fa mi ha detto che chi sogna può muovere le montagne. Con tutta ‘sta pianura ci potrebbe pure andare grassa!

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