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8 Gennaio 2013

La cicciona

di Francesca Boari | 14 min

Mi sono guardata allo specchio anche questa mattina. E come potevo non farlo del resto? Non c’è giorno in cui io mi svegli e il primo pensiero sia questo mio corpo informe, così pesante da portare fuori in mezzo agli altri, fra il rumore assordante dei commenti sottovoce, sussurrati appena per non farsi accorgere da me. Non posso farci niente perché subito dopo avere pensato che sicuramente i pantaloni non si allacceranno e dovrò indossare ancora una volta il maglione lungo, quello nero appoggiato sopra la sedia davanti alla scrivania,  incomincio ad inseguire il sogno di un immenso panino imbottito di nutella e ingoiato in fretta insieme con uno zuccheratissimo succo d’arancia. Non posso farci niente perché quel panino, in questo momento, mi sembra l’unico motivo per alzarmi dal letto scricchiolante e umido del sudore della mia pelle, unta di patatine fritte, ketchup e maionese.

E così incomincia anche questa giornata con la stessa, identica fatica di sempre. Mentre mi vesto, sento le stoviglie in cucina rumoreggiare e allora mi rallegro: è la mamma che, anche oggi, prepara cibi succulenti e appetitosi. La mamma è sempre molto contenta quando mangio e apprezzo il suo mestiere di cuoca domestica, fedele e puntuale. Io così quando sto assieme a lei non mi preoccupo di ingrassare, sono serena e mangio soddisfatta, fino a sentire un profondo senso di sazietà.

Scendo in cucina – mancano solamente pochi minuti all’inizio della scuola – mi affretto ad ingoiare il mio panino colmo di cioccolata, proprio come piace a me. La mamma sorride, e io penso non devo poi essere tanto grassa se la mamma è contenta quando mangio. L’abbraccio sulla porta di casa e poi la corsa in bicicletta verso la scuola che, per fortuna, non è molto distante. Eppure, mentre pedalo, penso che proprio oggi il percorso sembra essere più lungo e i miei respiri affannati ne sono una prova schiacciante. Spingo con tutta la forza che ho su quei maledetti pedali e finalmente la lunga discesa mi procura un lieve sollievo. Adesso sono quasi davanti all’ingresso della scuola e so che devo, assolutamente devo, cancellare i segni dello sforzo dal mio viso. O sarò oggetto della solita derisione. Rallento un pochino, e decido di scendere anzi tempo dalla bici. Da lontano i miei compagni sembrano dei puntini o almeno io li vedo così. Appoggio la bicicletta e mi accorgo che manca quella di Carlo. Se oggi Carlo non viene a scuola, mi toccherà prendere una doppia porzione di pizza all’intervallo, e poi sarà assolutamente difficile non pensare a mangiare fino alle undici. Adesso sono appena le otto e dieci: tre ore con il maestro di italiano che ogni volta che gli chiedo di andare in bagno mi squadra in modo talmente imbarazzante da far sembrare il tragitto dal banco alla porta interminabile. Ti prego Carlo oggi devi esserci, e mentre penso così sono talmente nervosa che mi mangerei anche quell’ultimo pezzettino di unghia che è rimasta sull’indice. Mi mescolo distrattamente in mezzo al rumore degli altri e già non vedo l’ora di potermi sedere al banco per isolarmi di nuovo, nel delicato silenzio delle mie emozioni, che si concentrano solo sulla pizza calda delle undici.

Otto e venti: suona la prima campanella. Ne dovranno seguire altre quattro, penso desolata. L’insegnante entra dopo alcuni istanti e si appoggia svogliato al suo trono. Sfoglia come ogni mattina il registro puntando il dito indice, ora qui e ora lì. Si mette a scrivere e sembra non curarsi del brusio. Dopo qualche minuto, quando sa che ormai non può più attardarsi in inutili procedure burocratiche, si rivolge alla classe con un distratto” dove eravamo rimasti l’ultima volta?”. Alice si alza in piedi e, spostandosi i capelli dietro l’orecchio sinistro, fa la sua bella figura quotidiana, annoiando sia noi sia il professore. Penso però che Alice è bella. Io la guardo spesso e mi accorgo della sua pelle così liscia e pulita delle lentiggini elegantemente distribuite sul viso e sul décolleté, i tratti così delicati e femminili, le gambe lunghe e sottili, il ventre piatto. E poi quel magnifico colore di capelli…Sono rossi, ma non di quel rosso fasullo che va tanto di moda da qualche anno a questa parte, bensì un rosso biondo, che fa pensare ad un’elegante donna antica, una di quelle che frequentavano le corti dei principi e che, nei ritratti, non sembrano neppure vere da tanto sono belle.

Alice è sicuramente una ragazza desiderabile. Di lei si potrebbe innamorare chiunque. Anche il professore penso che sia innamorato di lei, in fondo in fondo. Solo perché ha qualche anno in più, non può non accorgersi di tanta grazia e bellezza, avendo la fortuna di trovarsela di fronte ogni giorno, ormai da tre anni.

Carlo non è ancora arrivato e ormai per oggi non arriva più. Forse anche Carlo è distratto da Alice, e perciò non si accorge che, in questo bambinone da circo, un cuore magari delle stesse dimensioni – perché io me lo immagino così – batte fortissimo per lui. A volte penso a come sarebbe bello se anche lui ricambiasse questo mio sentimento e potessimo afferrarci per mano, entrare insieme, senza vergogna, in classe e salutarci al termine delle lezioni con un bacino rubato alla curiosità di tutti. Mi consolo pensando che Alice non può avere un cuore grande e grosso come il mio, in quel minuto ed esile corpicino da ballerina mancata.

 Driiin…suona la campana della prima ora e io non ho ascoltato neppure una parola della lezione sui poeti della prima guerra mondiale. Adesso il professore continua a ripetere “Mi illumino d’immenso” e io penso alla grandezza di queste parole che rimandano alla luce di quanto si desidera, della vita e della speranza anche nei momenti più difficili. Come questo per me, penso, che non c’è Carlo, io non so dove guardare e l’unica attesa è quel quotidiano e rassicurante profumino di pizza calda delle dieci e trenta, quando il bidello scarta i cibi per la ricreazione nell’atrio, e anche io ritrovo finalmente il mio unico immenso.

Ancora pochi secondi e il supplizio di Ungaretti se ne andrà per lasciare che io continui fra l’invocata indifferenza degli altri a precipitare dentro questo mio corpo.

Ieri sera la bilancia segnava 160. Ma cosa sono i numeri rispetto a tutto il cosmo? Tre numerini affiancati timidamente l’uno all’altro…uno sei e zero. Non sono niente – mi rassicuro – e driiin suona anche la terza sospirata campanella. Le ultime due saranno sicuramente meglio sopportabili, se avrò ingerito la mia porzione raddoppiata di cibo, per via di Carlo, nello stomaco ormai digiuno da quasi tre ore. E insieme alla melodia della campanella, mi sembra che si sentano anche le urla del mio insaziabile stomaco. Mi precipito fuori dell’aula decisa a non volere condividere con nessuno l’atteso momento. Sono già nel corridoio, davanti al bidello con un sorriso forzato sulla faccia tra un lamentoso ed affaticato un euro e cinquanta e l’altro. “Tre euro”, mi dice guardandomi con un’espressione che sta tra il disprezzo e la commiserazione forzata. Con il mio bottino bollente tra le mani, mi dirigo verso il sottoscala dove so che non passerà nessuno e così potrò mangiare in pace, senza occhi puntati e ricolmi di ingenua crudeltà, quelli dei bambini come me, che riescono sempre a farmi sentire a disagio, con i loro “cicciona”, diventerai senza dubbio la donna cannone del duemila se andrai avanti così”.

Io quando loro dicono queste cose non li sto a sentire, ma mi innervosisco e mi viene voglia di mangiare ancora: patatine, pop corn, coca cola, insomma qualunque cosa pur di fare loro rabbia e dimostrare che non do nessun peso a quella stupida cattiveria. Mangiare è così bello che adesso lo preferirei ad una carezza della mamma… e anche ad un bacio di Carlo. Insomma voglio dire che il cibo non ti delude mai e, allo stesso tempo, ti dà tanta soddisfazione e gioia, senza pretendere niente in cambio.

Tra questi pensieri e pochi altri, fra cui alcune formule di scienze e qualche numero di matematica, anche questa mattina sembra essere trascorsa senza avere rivolto la parola a nessuno: solo un ciao piano all’entrata e un saluto di congedo alla fine.

Mentre mi appresto ad appoggiare il mio sederone largo alla sella della bicicletta, fatta fare su misura dalla mamma per il mio compleanno dei tredici anni, due mesi fa, mi raggiunge Agostina. Agostina è l’unica amica che ho, se vogliamo chiamarla così. Facciamo sempre la strada insieme per tornare a casa. Abitiamo a pochi metri di distanza, quasi l’una di fronte all’altra. Agostina è buona e generosa ed è l’unica che mi racconta dei suoi problemi. E’ una ragazzina bruttina, ma intelligente e sensibile. A volte mi dice che dovrei mettermi a dieta, bere latte scremato e cose di questo tipo. Io le rispondo che ha ragione, ma è più forte di me, quando vedo una torta di cioccolata di quelle buone e soffici che fa la mamma, tutta ricoperta di zucchero a velo, non riesco proprio a resistere e me la mangio tutta.

 Agostina mi domanda preoccupata se la mamma non mi sgrida quando faccio così.

Io rispondo di no che anzi lei è contenta e si mette subito a prepararmene un’altra.

 “Sai, la mamma lavora tutto il giorno, è impiegata presso una ditta che fa orario continuato dalle otto della mattina alle sei di sera. E così quando torna a casa anche se è tanto stanca e non parla mai, si mette in cucina e mi prepara torte, pasta al forno con il ragù, pollo con le patatine fritte, hamburger e wurstel, per non farmi mancare niente durante il giorno quando lei non c’è”.  Così le dico e aggiungo anche che, se vuole, può venire a fare la merenda da me. Ma lei mi risponde, come tutte le altre volte, che non può perché deve fare i compiti. Io so benissimo che è una bugia. Non viene perché la sua mamma non vuole, visto che sa che sono sempre in casa da sola. Oppure avrà paura che sua figlia diventi grassa come me a furia di biscotti e patatine fritte.

 Quando racconto ad Agostina che di sera prima di addormentarmi sono capace di mangiarmi anche trenta pacchetti di patatine, mi guarda incredula e un po’ anche invidiosa. Sono sicura che se avesse una mamma buona come la mia, le mangerebbe anche lei le patatine prima di andare a dormire

Saluto Agostina e, di nuovo sola, apro la porta di casa e, come ogni giorno, trovo apparecchiato in cucina. Delle volte mi piacerebbe trovare un biglietto della mamma in cui mi dà delle raccomandazioni su come riscaldare la pasta o il pollo, oppure anche solo un saluto. “Ciao Vanessa. La tua mamma”. Ecco basterebbe questo per farmi ancora più felice di quando entro e trovo tutto predisposto per un lauto e soddisfacente pranzo.

Mentre una forchettata dietro l’altra finisco in un quarto d’ora di mangiare, guardo i cartoni giapponesi sui canali mediaset oppure altre volte le telenovelas. Le telenovelas mi piacciono e, anche se il professore non vuole che le guardiamo, io penso ai protagonisti come a componenti della mia vita quotidiana. Voglio dire che mi preoccupo per loro, dei loro amori, problemi, catastrofi quotidiane che finiscono irrimediabilmente per risolversi dinanzi al naturale oblio degli altri.

Prima di incominciare a mangiare sono sempre molto contenta. Poi lentamente la mia felicità si consuma insieme con il cibo e il suo squisito sapore. Alla fine dei pasti sono terribilmente infelice ed è una situazione che non riesco proprio a controllare. Il fatto è che non sento mai un senso di completa sazietà e, mentre anche l’ultimo boccone se ne sta sprofondando nel mio enorme pancione, io penso già a quello che mangerò a merenda e a quante ore dovranno passare prima del sospirato spuntino. Suona il telefono e mi sveglio di soprassalto pensando alle terribili campanelle della scuola. Dall’altra parte del ricevitore è la voce della mamma che mi riporta immediatamente al calore della mia casa. Mi domanda se ho mangiato e io le rispondo di sì e che era tutto buonissimo. Lei è contenta e riattacca con un formale ci vediamo più tardi.

Sono già le quattro ed io non ho ancora aperto il libro di geografia. Sono sicura che domani il professore almeno una domandina sull’Africa me la farà sicuramente. Non risponderò niente e come sempre lui si rivolgerà ad un altro che almeno la bocca la aprirà per fare qualcosa d’altro a parte mangiare. Infatti, è così che il professore mi dice quando rimango in silenzio. Alcune volte, è vero che rimango in silenzio perché non saprei che cosa dire. Ma per lo più è perché mi imbarazzano tutti quei bisbiglii e quelle risatine sottobanco dei miei compagni. Penso che spesso la crudeltà di un bambino sa essere irraggiungibile. La mamma dice di non farci caso, che i bambini non capiscono niente e sono quasi sempre invidiosi.

Io rimango un po’ a pensare e poi mi chiedo di che cosa dovrebbero essere invidiosi. Forse dei trenta sacchetti di patatine che mangio tutte le sere prima di addormentarmi. Una volta l’ho persino detto alla mamma che pensavo che Agostina non venisse a fare i compiti da me perché non aveva una mamma buona come la mia. Lei si è messa a ridere e poi mi ha regalato una cioccolata grandissima.

Mi incanto per un momento di fronte ad una mia fotografia. Si vede soltanto il viso ed è così grande che riempie quasi tutto lo spazio della polaroid. Le mie guance sono enormi e il sorriso è come se affogasse in mezzo a loro. Anzi non si capisce nemmeno se sorrido o sono triste. E’ una foto di due mesi fa e, sicuramente, dovevo essere un pochino meno grassa di adesso. Gli occhi sono belli però, così azzurri e tirati, simili a quelli di una giapponese, come mi dice sempre la mamma. Peccato, però, che dietro quel bell’azzurro intenso mi sembra sempre di non vedere niente. Forse passo troppo tempo da sola, non parlare mai con nessuno può essere che non mi faccia tutto questo bene. Insomma lo sguardo non comunica niente, è come perso nel vuoto, privo di attese, smarrito in quel colore che sembra allora solo un brutto scherzo della natura.

Mi sento triste se penso a queste cose, e così smetto di guardare quella fotografia. In fondo mancano poche ore e la mamma tornerà di nuovo a casa e, anche se sarà talmente stanca da non rivolgermi la parola come sempre, almeno la sentirò muoversi in cucina e respirare mentre dorme.

La tv è ancora accesa dalle due del pomeriggio e io me no sto davanti a questa senza avere la forza di alzarmi e spegnerla.

Del resto quando mi decido a farlo incomincia sempre un programma che mi interessa.

Sono le cinque e un quarto ed ecco lo sceneggiato che mi piace di più. Ci sono tanti bambini, è ambientato in una prateria, lontano dal caos della città. Sono tutti allegri e hanno sempre tanta voglia di stare insieme.

Mentre assisto all’ennesima avventura, mi mangio una grossa fetta di tenerina. Una torta al cioccolato e al burro che la mamma sa fare divinamente. Una fetta dopo l’altra e mi accorgo che nel giro di un’ora me la sono mangiata tutta.

Penso che fra mezz’ora torna la mamma e sono serena.

Tutto quel cioccolato mi ha riscaldato il pancino e mi ha messo di buon umore.

La mamma finalmente è arrivata. “Ciao, tesoro”, ed è già in cucina con la porta chiusa.

Alla mamma non piace che io la guardi mentre cucina, ma io sono già contenta quando sento dei rumori che mi fanno sognare il tepore della sera e delle lenzuola fresche e profumate.

Mentre aspetto che la cena sia pronta, sgranocchio delle brustoline e non mi preoccupo anche se sento che la pancia continua a gonfiarsi.

Domattina indosserò quel camicione che la mamma mi ha fatto fare da Giovanna su misura. Giovanna viene a fare le pulizie a casa nostra tre volte alla settimana. E’ anche una brava sartina, seppure non serve certamente un sarto di grido per fare dei vestiti nei quali l’unico problema sia entrare e stare comodi.

Verso sera mi viene sempre sonno e non vedo l’ora di potermi stendere nel mio lettone e naufragare in tutti quei favolosi stuzzichini, mentre la televisione solletica i miei sogni più belli.

Mangiamo in silenzio come ogni sera alle sette e trenta. Alle otto il cibo è già in viaggio verso le zone più misteriose del mio corpo ed io mi congedo dalla mamma dopo averla baciata e abbracciata. Prima di chiudermi in camera, rimango sempre alcuni istanti a guardarla. Tuttavia, da tanto è occupata a lavare stoviglie, lei non se ne accorge neppure. La mamma è bella, ha i capelli che le accarezzano le spalle squadrate e robuste, un corpo grande e regale al tempo stesso. Le mani poi sono stupende così soffici e morbide nella loro abbondanza.

Questa sera sono particolarmente stanca e così mi affretto ad accendere il televisore e distendermi sul letto.

Non indosso nemmeno il pigiama perché voglio restare nuda e sentire intorno a me il calore di tanto grasso diffondersi generosamente. Mi guardo e penso che domattina non voglio specchiarmi perché ormai nello specchio non ci sto più.

Sono stanca di questi pensieri e all’improvviso mi manca anche il respiro.

Inatteso un sogno torna a conciliarmi con il mondo degli altri. C’è una luce bianca che avvolge un salone immenso dove qualcuno sta dando una festa, a cui anche io sono stata invitata. La luce è talmente bianca che le persone stentano a riconoscersi. Io sono in un angolino e aspetto qualcuno. Non ho più fame e all’improvviso una voce sussurra piano “Vanessa, Vanessa”. Io sono leggera come una piuma e mi muovo verso la voce con una grazia sconosciuta ai mortali. C’è un corridoio lungo lungo, e in fondo un altro spazio immenso in cui c’è solo lui che mi abbraccia forte forte, dicendomi solo queste parole “perché mi hai fatto aspettare tanto”

Adesso sono felice per davvero, proprio come quando la campanella delle undici segnava a scuola l’inizio della merenda

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