Attualità
6 Novembre 2012

Terra Terra – II parte

di Elena Bertelli | 5 min

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Lasciando perdere il buonismo ecologista (espressione rubata a un affezionato lettore) torno sul tema introdotto nel post precedente.

L’ecosistema si regge in equilibrio precario, l’umanità si sta impegnando nella sua nonsalvaguardia, la responsabilità è collettiva, nemmeno le più innocenti creature si salvano dal peccato – eh sì, pure i teneri pargoletti di mamma e papà, che se la fanno nel pannolino, sono responsabili di una grossa produzione di fagotti puzzolenti destinati a riempire discariche e inceneritori. Non ci avevate mai pensato? È proprio questo il problema.

Mettiamo che il luogo in cui viviamo sia sempre più intensamente edificato, antropizzato, abitato e che questa saturazione artificiale stia avendo la meglio sul paesaggio naturale incontaminato.

Ecco che il divorzio tra uomo e natura è quasi inevitabile, siamo entità sempre più lontane e sconosciute.

Dall’allontanamento al diffuso mancato rispetto nei confronti della natura il passo è breve. Se l’occhio non vede, il cuore non duole.

A questo punto – in base a una teoria che ho elaborato mentre guardavo alla tv la furia di Sandy e riaffioravano alla mia mente le immagini dei campanili crollati con il terremoto di maggio – entra in gioco l’arte.

 

Pittura e scultura possono essere potenti armi di istruzione di massa; esistono anche per ricordarci come è fatto il mondo. Fin dall’antichità, la natura è tra i soggetti preferiti dagli artisti che, da sempre, indagano la realtà e, filtrata attraverso i loro occhi, la riportano al pubblico, coinvolgendolo in modo empatico, sensibilizzandolo.

Moltissime opere del passato testimoniano di una profonda simbiosi tra artista e natura. Posso citare alcuni esempi, senza esagerare nell’allontanarmi (che poi i lettori si arrabbiano che sconfino troppo oltre i mattoni delle mura estensi).

–        Nel bassorilievo del portale maggiore del Duomo di Modena uomini e animali, tra i rami intricati di una selva, se le danno di santa ragione, mentre alcuni contadini vendemmiano. Wiligelmo, l’autore, ha messo in scena, in un solo colpo, una forza ostile che l’uomo deve combattere e un frutto della bontà divina.

–        In terra emiliana si inciampa frequentemente in artisti che amavano a tal punto la natura da scegliere soggetti allegorici o mitologici che gli permettessero di rappresentarla liberamente: Dosso Dossi, prima del suo arrivo a Ferrara ha dipinto la maga Circe all’interno di un ameno boschetto, contornata da un gruppo di svariate bestiole che altro non sono che i malcapitati amanti, trasformati in animali, realizzati con mano straordinariamente esperta.

–        La terremotata chiesa di San Paolo, a Ferrara, ha un’abside che è un tripudio di specie animali delle nostre campagne. Scarsellino ha dipinto cerbiatti, galli, uccelli, caprette, qua e là, in tutta la parte inferiore dell’affresco, dove la routine quotidiana è improvvisamente interrotta dall’incredibile evento che si sta svolgendo tra le nuvole: il Profeta Elia viene rapito al cielo da un carro volante, trainato da quattro cavalli.

In queste opere la vegetazione, gli animali, non sono importanti tanto dal punto di vista allegorico, ma in quanto componente biografica dell’artista, un bagaglio culturale che egli inserisce nell’opera, il frutto di tanto tempo passato a osservare e ritrarre quello che quotidianamente vedeva attorno a sè.

Sono fenomeni che si ripetono anche nel corso del XX secolo. Pensate a uno dei più astratti tra gli astrattisti, Piet Mondrian che, ritraendo un albero, ha compiuto un percorso inziato da una matrice figurativa, passando per l’adesione al cubismo per approdare, finalmente, alla totale sintesi costruttivista, fatta di linee perpendicolari tracciate su una tela bianca.

E, proprio sull’utilizzo di cose che ci capitano tra le mani durante il giorno, spesso elementi messi a disposizione dalla terra, ha fondato le sue attività educative Bruno Munari. Artista e scrittore ma, soprattutto, sostenitore dell’importanza della fantasia e dell’immaginazione, ha dimostrato che, partendo dalle forme della natura, possono nascere le idee migliori. Osservando il contorno e le nervature di una foglia si possono creare migliaia di forme diverse e sovrapponibili, intagliando una patata si possono realizzare disegni ripetibili all’infinito, stimolando la creatività, per fare dei bambini di oggi i designer, gli architetti o gli stilisti di domani.

 

E oggi? Ci sono ancora artisti capaci di farci innamorare della natura fino a infonderci un maggior senso di rispetto?

Certo che sì, sono sopravvivenze che vanno cercate, lucciole nel buio della campagna “esseri luminescenti, danzanti, erratici, inafferrabili e, come tali, resistenti”* al genocidio culturale teorizzato da Pasolini. Io uno di questi esseri brillanti di luce propria ho avuto la fortuna di incontrarlo. Risponde al nome di il Lepre, alias Denis Riva. Un artista che deve al suo vivere in simbiosi con la natura e alla sua geniale vena creativa la potenza della propria arte. Nei suoi animali di pianura ho ritrovato tutto l’amore e il rispetto che egli prova per le specie che ritrae tanto fedelmente, inserendole nel proprio universo fantastico, fatto di maghi e creature antropomorfe, quasi volesse salvarle da una possibile estinzione. Vedere un artista come questo all’opera è un’esperienza che ti porta a riflettere sulla vita sulla terra e su tutto ciò che la rende possibile, verso cui dobbiamo tornare ad avere rispetto.

Avere competenze in materie di climatologia e di metereologia qui conta poco, credetemi, appassionarsi all’arte può aiutare l’uomo a tornare amico della terra e a volerle bene.

 

* Georges Didi-Huberman, Come lucciole. Una politica delle sopravvivenze, Bollati Boringhieri, Torino, 2010, p. 17.

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