Indiscusso
24 Ottobre 2012

Mamma Solvay e il tumore preso in ferie

di Marzia Marchi | 3 min

Si torna a processo e vista la storia di Porto Marghera qualche elemento di fiducia si può avere sulla possibilità di fare giustizia, in appello, alle famiglie della lunga catena di morti registrata, in oltre quarant’anni (dal 1953 al 1998 circa), tra gli operai dell’ex stabilimento Solvay di Ferrara.

Nel processo di primo grado, conclusosi appena pochi mesi fa, gli ex dirigenti Solvay furono giudicati innocenti “perché il fatto non sussiste” rispetto all’accusa di lesioni colpose e omissione delle misure di sicurezza, relativamente alle condizioni di due ex operai che ancora sopravvivono con un epatocarcinoma giudicato non conseguente all’esposizione al CVM (cloruro di vinile monomero). La storia è lunga e riguarda un altra “grande mamma” di Ferrara, l’azienda Solvay multinazionale belga, che portò in città la lavorazione della soda nell’immediato dopoguerra ma insieme a quella anche la produzione del Pvc attraverso la lavorazione del micidiale gas CVM. Sulla cancerogenità di questa sostanza non ci sono dubbi da oltre trent’anni. Proprio in Italia, prima, grazie agli studi pionieristici del Prof. Viola (medico di fabbrica presso gli stabilimenti della stessa Solvay di Rosignano) pubblicati alla fine degli anni Sessanta, poi alle ricerche del Prof. Maltoni, commissionate dal sindacato e concluse nella prima metà degli anni settanta, si è avuta la prima drastica riduzione dei livelli massimi di esposizione fino ad allora consentiti.

I primi risultati di uno studio epidemiologico sulla mortalità dei lavoratori di Pvc nel nostro paese, avviato negli anni ottanta dall’Istituto Superiore di Sanità uscirono nel 1986. Erano relativi a 3 dei 9 stabilimenti allora presenti in Italia, quelli di Rosignano, Ferrara, Ravenna e davano già un quadro piuttosto allarmante della situazione. Nulla però si mosse. L’azienda continuò a produrre fino al 1998 nell’area del petrolchimico assorbendo maestranze per generazioni. Una fabbrica dall’odore di mandorla amara, questo il famigerato odore del gas CVM che veniva utilizzato per la polimerizzazione del Pvc, il quale prodotto in granuli finiva poi nei vari tipi di lavorazione. Le testimonianze dei sopravvissuti – è il caso di dirlo -, parlano di lavorazioni che fino ai primi anni ’80 avvenivano senza il minimo dispositivo di protezione, né individuale (maschere, guanti) né di reparto, allarmi o aspiratori. Parlano, le mogli e le figlie, di tute coperte di polvere bianca da lavare a casa e di strane patologie che proliferavano tra gli operai: la sindrome della mano fredda che rendeva fragili le ossa della mano, disturbi epatici e della sessualità, tutte malattie che già erano riconosciute in nesso causale con l’esposizione al gas. Ma si andava avanti perché Mamma Solvay, così era chiamata dagli stessi operai, pagava bene, pagava anche le cure temporanee, mandava i figli nelle sue colonie e assumeva volentieri i congiunti dei suoi operai. In una città povera, dalla storia centenaria di agricoltura latifondista negli anni sessanta e settanta il lavoro in fabbrica con le ferie pagate e la colonia agevolata per i figli era una manna che nessuno osava mettere in discussione, nemmeno il sindacato che si muoverà soltanto a fronte del continuo ammalarsi di tumore dei lavoratori. Da lì partirà la prima immissione di misure di sicurezza ma per molti lavoratori l’esposizione data già 30 anni ed inizia la sequela delle morti tutte per tumore. E’ proprio a Ferrara che viene infatti rilevato il primo caso di morte per angiosarcoma epatico poi dimostrato dagli scienziati come direttamente connesso all’esposizione al CVM.

La lotta del processo d’appello ora volge nel tentativo della difesa di dimostrare che l’epatocarcinoma che affligge due ex lavoratori per quasi trent’anni esposti al CVM non ha un nesso di stretta causalità con l’esposizione al CVM. Potrebbero anche esserselo preso in ferie, par di capire!

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