L'inverno del nostro scontento
12 Aprile 2023

Diritto al sapere e critica del realismo capitalista

di Girolamo De Michele | 5 min

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Ripubblico qui il commento già comparso sul manifesto del 9 aprile, con un’aggiunta tratta dal Rapporto Disuguaglianze 2023 della Fondazione Cariplo e questa annotazione: nel testo cito le parole di Aldo Moro e Concetto Marchesi, relatori della prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, che scrissero di proprio pugno l’articolo 34 sul diritto all’istruzione; e che chiarirono il proprio convergente pensiero, con parole che possono essere verificate da chiunque (i verbali dell’Assemblea Costituente sono pubblicati sul sito della Camera, ma anche qui), in modo che si possa citare Aldo Moro senza travisare ciò che pensava su merito e diritto allo studio. Perché a googleare “Aldo Moro” per scaricarsi una decontestualizzata frase mentula canis sono capaci tutti – ma questa è un’altra storia…

A voler prendere sul serio la “scuola delle competenze”, questo cavallo di Troia che cela l’assoggettamento della didattica, bisognerebbe concludere che il discorso di Alessandra De Fazio [qui, dal minuto 1:05:30], che in 7 minuti ha compendiato cos’è il neoliberismo (quello che Mark Fisher definì “Realismo capitalista”), dimostra che l’università italiana è in grado di produrre eccellenze. Ma lo scaffale vuoto delle competenze nulla sarebbe senza i contenuti: in questo caso i punti cardine del New Public Management, che riguardano l’intero settore pubblico, dall’istruzione alla sanità al Welfare.

Cominciamo col ricordare, dunque, che ascendere ai più alti gradi degli studi non è una facoltà, né un premio, ma un diritto sancito dall’art. 34 della Costituzione; quello stesso che nomina il merito, non come principio di selezione meritocratica, ma come titolo per esercitare un diritto “senza altra condizione che quella dell’attitudine e del profitto, cioè prescindendo dall’appartenenza a un determinato ambiente sociale o ad una particolare condizione economica” – quel “padrone inesorabile e invisibile” che è “la tirannia del bisogno” (così Aldo Moro e Concetto Marchesi nel dibattito costituente) [vedi il mio Una scuola senza merito]. In altri termini, quel sistema classista che allarga sempre più le differenze sociali, e contrappone alla falsa retorica dell’ascensore sociale la dura realtà del pavimento colloso che inchioda i subalterni alla condizione sociale di origine. Dal Rapporto Censis 2021 agli scenari disegnati dal rapporto Excelsior di Unioncamere 2019-23, emerge un’occupazione povera di capitale umano, una disoccupazione che annovera tra i suoi componenti un numero elevato di laureati e una domanda di lavoro non orientata a inserire persone con livelli di istruzione elevati (il problema della sovra-istruzione) dovuta a caratteristiche strutturali del sistema produttivo italiano su cui il PNRR non incide; in cui prevalgono le microimprese con produzioni a basso valore aggiunto e a basso grado di innovazione: come attesta la quota particolarmente alta di sovra-qualificati tra i laureati STEM. Il ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali si salda col sottoutilizzo del capitale umano e la dissipazione delle competenze, determinando un vero e proprio dispositivo di assoggettamento sociale che agisce anche attraverso i problemi elencati in modo puntuale da De Fazio.

Aggiungo alcuni punti riassuntivi del Rapporto Disuguaglianze 2023 della Fondazione Cariplo appena pubblicato (qui l’integrale):

Come emerge dal rapporto, da decenni la nostra società ha vissuto grandi trasformazioni e al contempo l’area della povertà è cresciuta in maniera molto importante: nel 2021 circa due milioni di famiglie si trovano in una situazione di povertà assoluta, ossia più del doppio rispetto al 2005.
In tale contesto, il percorso di istruzione obbligatoria fatica purtroppo da solo a svolgere il ruolo di ascensore sociale per i gruppi di studenti più svantaggiati, contribuendo anzi a sedimentare le disuguaglianze iniziali di apprendimento che derivano dai diversi background socioeconomici.
Il crescere in un certo contesto sociale tende infatti a influenzare fin dai primissimi anni di vita le attitudini delle persone e questo si evidenzia sempre più precocemente, a partire dai bambini della scuola materna. Questo condiziona gli apprendimenti ma, in modo più profondo, condiziona lo sguardo su di sé e sul mondo: il 55% dei ragazzi che crescono in centro pensano di andare all’estero; fra chi cresce in periferia solo il 29%. Emergono inoltre differenze, sin dall’età prescolare, tra la capacità di immedesimazione, la capacità di fiducia e di lettura del contesto: tutte competenze cruciali per la persona e per la sua vita sociale, lavorativa e collettiva.
La “mobilità sociale” è quindi un obbiettivo che va sostenuto con opportuni interventi per garantire la rimozione degli ostacoli che non la permettono, contrastando la disuguaglianza di opportunità.
Le fragilità si propagano e si sommano: esiste una compresenza tra diverse forme di esclusione e di “povertà” che toccano varie dimensioni della vita delle persone; laddove il livello di studio è più alto la popolazione presenta delle condizioni di salute generale migliori. Ma allo stesso tempo oggi in Italia solo l’8% dei giovani con genitori senza un titolo superiore ottiene un diploma universitario (22% la media Ocse) .

È la realizzazione di quel paradigma di governance noto come New Public Management (NPM), che costituisce la vera egemonia culturale della destra: il sistema d’istruzione, così come la sanità e la pubblica amministrazione, vengono amministrate in base a criteri che non contemplano la qualità dei servizi, dal momento che per il NPM la qualità non è altro che una proprietà derivata dalla quantità. E della quantità contano solo gli aspetti economici, in base al presupposto che non c’è altro modello di gestione della società possibile al di là di quello basato sulle regole del mercato (There Is No Anternative). Mercato che non contempla un’entità come la società, ma singoli individui concepiti come consumatori-utenti, imprenditori di sé stessi, individualmente responsabili del proprio futuro. Successo o insuccesso non dipendono dal contesto sociale, dalla struttura, dalle cause concomitanti: se ti va bene è perché, da bravo imprenditore di te stesso, sei un buon interprete delle regole del mercato; se ti va male è colpa tua, del tuo stile di vita o della tua origine sociale o geografica. La privatizzazione del disagio (malattia, istruzione, depressione sono fatti individuali, non sociali) si salda con la solidarietà negativa (se posso cavarmela scaricando la colpa sull’altro, perché no?) e la risignificazione della categoria della colpa come giusto destino: la società dei consumi non sa che farsene degli scarti.

Non per caso, alla dura requisitoria di De Fazio è seguito il vacuo, divagante e inconcludente blablabla dell’ex ministro Patrizio Bianchi, partecipe della stessa cultura manageriale della ministra Bernini: che ha contribuito, assieme ai suoi predecessori, alla distruzione dell’istruzione pubblica. Se una qualche sinistra intende riaprire i giochi, è da qui – con una radicale autocritica – che deve cominciare.

 

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