L'inverno del nostro scontento
4 Aprile 2023

Da via Rasella alle Fosse Ardeatine: appunti per una lezione (con una nota personale)

di Girolamo De Michele | 6 min

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Il battaglione nazista Bozen era un corpo di polizia militare; l’età media dei soldati era 26 anni e mezzo; quando i nazisti si ritirarono da Roma fu inviato a combattere nel nord Italia, dove il 25 aprile si arrese.
Erano italiani? In punta di diritto, no: erano sudtirolesi, e dopo l’8 settembre Trentino, Sud Tirolo, Friuli e Alto Veneto (oltre all’Istria) furono annesse al Terzo Reich. Quindi erano, in quel momento, cittadini tedeschi. Non è importante se fossero tedeschi o italiani: ma serve ricordare che chi si arruolò nella Repubblica di Salò, sostenendo di difendere “l’onore dell’Italia”, si batteva per un’Italia mutilata e ricondotta ai confini del 1866, prima della Terza Guerra d’Indipendenza.
Erano armati, anche troppo: l’alto numero di vittime dell’azione militare – oltre ai 33 morti, 55 feriti – si spiega, al netto della battaglia che ne seguì, con l’esplosione delle bombe a mano che portavano nelle bandoliere.
Se alla loro testa c’erano soldati con strumenti musicali, e se cantavano, e se marciavano in pieno giorno a orari regolari, era perché dovevano dimostrare, col loro atteggiamento spavaldo, che l’esercito occupante aveva il controllo della città. Le azioni militari della Resistenza – prima di quella di via Rasella ve ne furono altre 32 – avevano lo scopo di dimostrare il contrario.

Sul piano del diritto di guerra e del diritto internazionale, quella di via Rasella fu una legittima azione militare. Mentre non fu una legittima rappresaglia la strage delle Fosse Ardeatine, perché il cosiddetto diritto di rappresaglia è regolato da precise procedure che il comando tedesco ignorò, così come era prassi nazista ignorare i principi delle convenzioni che regolano la condotta in tempo di guerra. È per questo che i responsabili tedeschi della strage furono condannati, in base al diritto vigente.

Dire che la resistenza era composta da “partigiani comunisti” è di per sé scorretto, e se riferito a Roma falso. La componente comunista (nel senso del PCI) era a Roma solo una, e in quel momento probabilmente non la prevalente, fra le diverse forze politiche; al suo interno merita di essere ricordato Carlo Salinari, che quel 23 marzo fu il palo dell’azione partigiana, e che dopo la guerra ha continuato a combattere contro l’ignoranza con opere culturali e didattiche sulle quali si sono formate generazioni di italiane e italiani. Ai partigiani, comunisti e non, va aggiunta la presenza di uomini delle Forze Armate, e in particolare dell’Arma dei Carabinieri, che combatterono fianco a fianco con i civili sin dalla battaglia di Porta San Paolo dell’8-10 settembre 1943. Basta scorrere l’elenco delle vittime delle Fosse Ardeatine per verificare la pluralità delle idee che si unirono contro la barbarie nazifascista.

È un falso storico che i nazisti avessero offerto la possibilità di rinunciare alla rappresaglia se si fossero consegnati gli autori dell’azione di via Rasella: fu lo stesso generale Kesserling, comandante della XIV Armata Tedesca, al processo di Verona a rispondere, su domanda del giudice (inglese), che “a pensarci adesso, a distanza di tre anni, sarebbe stata una buona idea” – ma “no, non lo facemmo”.

È scorretto dire che le vittime delle Fosse Ardeatine erano “335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani“: c’erano stranieri, e c’erano ebrei, che a partire dalle leggi razziali non erano più italiani (anche se l’infamia delle leggi razziali “applicate all’italiana” è stata detta e scritta). Così come è scorretto dire che le vittime furono “335 donne e uomini“: erano tutti uomini. Dire queste inesattezze significa non aver mai visitato il Mausoleo delle Fosse Ardeatine, né essersi mai informato sulle ragioni, scritte nelle biografie personali, per cui quei 335 esseri umani furono fucilati. Il Mausoleo delle Fosse Ardeatine non è in campagna, ma all’interno di Roma, mezz’ora a piedi dal centro del quartiere Garbatella: il quartiere natale dell’attuale Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Lo stesso tempo, con l’auto blu, da Palazzo Chigi.

Ma soprattutto, dire che le vittime erano italiane sottintende che fu un conflitto fra “italiani buoni” e “tedeschi cattivi”: laddove la catena di esecuzione dell’ordine di Kappler fu interamente italiana. Era italiano il direttore di Regina Coeli Donato Carretta, che consegnò le vittime; era italiano il questore di Roma Pietro Caruso, che contribuì di proprio pugno alla compilazione dell’elenco delle vittime; era italiano il ministro degli interni della RSI Guido Buffarini Guidi (in quei giorni a Roma), dal quale Caruso si recò per chiedergli se era tenuto ad obbedire agli ordini di Kappler, e che gli rispose di obbedire. Non è questione di italiani o tedeschi, ma di resistenti all’occupazione nazifascista e di criminali nazifascisti. Alcuni dei quali, sopravvissuti alla guerra, hanno contribuito alla fondazione del Movimento Sociale Italiano.

Al conto delle vittime vanno doverosamente aggiunti Fedele Rasa, una donna che era nei paraggi perché, sfollata, stava raccogliendo cicoria: non rispose all’intimazione di allontanarsi, perché aveva 80 anni ed era sorda, e fu falciata da una mitragliata; e il tenente tedesco Wetjen, che si rifiutò di sparare e fu assassinato dentro la galleria da Kappler in persona.

L’intera vicenda, da via Rasella alle Fosse Ardeatine, si distende nell’arco di una giornata scarsa: l’attacco alla colonna tedesca avviene alle 4 pomeridiane del 23 marzo, alle 14 del 24 i camion con le vittime designate sono già in viaggio da via Tasso e Regina Coeli verso le cave sull’Ardeatina. La memoria è una brutta bestia: capita spesso di leggere ricostruzioni o spiegazioni (in genere non sono storici) che presuppongono tempi più lunghi, nei quali sarebbero avvenute trattative più o meno misteriose o occulte. Uno degli indizi per riconoscere il vero dal falso, in questo caso, è chiedersi se ciò che viene asserito è plausibile possa essere accaduto nello spazio di 22 ore.

Piccola nota bibliografica

Mi limito alle ricostruzioni di Alessandro Portelli: L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria (Donzelli, 1999, più volte rieditato); 24 marzo 1944. Le Fosse Ardeatine, in AA.VV. I giorni di Roma (Laterza 2007), pp. 271-295; Paolo Mieli, Passato e presente: Fosse Ardeatine. La memoria, Rai3, stagione 2021-22, su RaiPlay.

Una nota personale.

Gli esponenti politici di questi giorni non sono certo i soli a parlare di fatti storici senza alcuna cura per le verità storiche accertabili e accertate. Ars longa vita brevis, e le ore di storia sono poche: perché, dunque, un insegnante di storia deve rincorrere inesattezze, errori, falsità, bufale e stronzate, che portano via tempo e fanno ispessire i tessuti epatici? Perché domani, quando studentesse e studenti, avendo nelle orecchie o negli occhi errori e stronzate di cui non ricorderanno più da chi le hanno sentite o quale social le ha ha rilanciate, andranno a ripeterle, qualcuno darà la colpa alla scuola e ai loro insegnanti.
E del resto, anche fra chi si è indignato, quanti hanno verificato l’esattezza delle proprie conoscenze, invece di mettere il pollice in su o in giù per simpatia politica? (Per inciso: non è forse quello che è successo allo stesso Liceo Ariosto poco tempo addietro?). Ogni volta che diamo per certo un fatto perché conosco la tal persona e mi fido di leifoss’anche il profe di storia! – stiamo togliendo un altro piccolo mattoncino dal muro che separa verità e menzogna, contribuendo a renderle indistinguibili.
Nella storia, diceva un tale, gli eventi accadono due volte, prima in forma di tragedia, poi di farsa: non sarebbe male chiedersi a quale delle due rappresentazioni, nel teatro della vita, stiamo partecipando. E rispondersi sinceramente.
Ma come canta Elton John: Sorry, seems to be the hardest world.

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