L'inverno del nostro scontento
23 Novembre 2025

Il profeta insistente. Raphael Lemkin, l’uomo che inventò la parola genocidio

di Girolamo De Michele | 7 min

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C’è stato un uomo, un giurista polacco nato insieme al Ventesimo secolo, che per primo diede un nome a quel crimine di portata tale da eccedere ogni giurisprudenza. Si chiamava Raphael Lemkin e raccontare la sua vita significa ripercorrere il Novecento dei grandi crimini contro l’umanità. Mentre lui nasceva, l’imperialismo tedesco dispiegava la sua prassi genocidaria in Africa. Negli anni della sua adolescenza, lo sterminio degli armeni precedette di pochi mesi i pogrom degli ebrei in terra russa. Mentre prendeva forma la sua carriera di giurista, in Ucraina avveniva l’Holodomor, la terribile carestia voluta dal “piccolo padre” Stalin. Il concetto che definiva gli atti criminali ai danni di un intero popolo finalizzati al suo sterminio aveva pertanto già preso corpo nelle formulazioni di Lemkin ben prima che la Shoah annichilisse gli ebrei d’Occidente, inclusi 49 membri della sua famiglia.

Inizia così il testo che l’editore ha posto nella bandella del mio ultimo libro Il profeta insistente. Raphael Lemkin, l’uomo che inventò la parola genocidio. Doveva, in origine, essere un’introduzione a una silloge di scritti. Ma su Lemkin, in Italia, ho ben presto scoperto non esserci quasi nulla: alcuni saggi brevi, o sezioni di un libro (Flores, Portinaro, Leotta, Nissim), ma non una biografia, non un saggio critico, non una traduzione dei suoi scritti – né dei libri scritti su di lui negli Stati Uniti, in Francia, in Polonia. Ben presto ho scoperto che non è un caso: in Italia è quasi ignorato l’intero campo di ricerca dei Genocide Studies. Come ha scritto poco tempo fa (in una pubblicazione statunitense, non per caso) lo storico Andrea Graziosi, «la scarsissima e marginale partecipazione del nostro Paese alla grande stagione di ricerca [sul genocidio] avviatasi alla fine del secolo scorso», è la causa della mancata traduzione in Italia dei «lavori generali che hanno segnato questa stagione».

È anche per questo che il focus della mia ricerca si è spostato sulla vita e le opere dell’uomo che ha creato la parola genocidio per designare un crimine che aveva già ben chiaro (e lo mise nero su bianco) nel 1933, e al quale aveva cominciato a pensare negli anni Venti del secolo scorso. Riguardandolo quando avevo concluso la prima stesura (la prima delle tre), ho sentito che ripercorrere la vita dell’uomo che ha coniato questo termine, per vedere dall’interno eventi, attraversamenti, riflessioni, collaborazioni e relazioni, è stato un po’ come ripercorrere la vita di Galileo per vedere la concreta formazione della sua rivoluzione scientifica.
Con buona pace di chi si informa alla Google University, ci sono non poche sorprese nel ricostruire la storia della parola genocidio. Ad esempio, come Lemkin riuscì a bucare il muro di gomma delle potenze vincitrici della guerra, che la Convenzione sul genocidio non l’avrebbero voluta, attraverso un’alleanza di piccoli paesi, in particolare quelli sudamericani e quelli musulmani. E quanto sia stato importante il contributo dei giuristi arabi – in particolare il giudice egiziano Bey Riad, decisivo nel far approvare l’uso del neologismo, e il diplomatico palestinese di Khan-Yunis Muhammed el-Farra, con cui Lemkin collaborò negli ultimi anni; e quale sia stato il ruolo delle donne, e fra loro due scrittrici insignite del Nobel per la letteratura, Gabriela Mistral e Pearl S. Buck. Ma anche, quali tragedie attraversarono la storia della Convenzione ONU: dall’assassinio di due stretti collaboratori di Lemkin, il ministro socialista cecoslovacco Masaryk defenestrato dagli stalinisti; e il diplomatico svedese Folke Bernadotte, assassinato dai terroristi sionisti della Banda Stern per far fallire il piano di pace ONU nel 1948 durante il primo conflitto arabo-israeliano; l’avvio dei crimini contro il popolo palestinese da parte delle bande paramilitari sioniste dell’Irgun, e le reciproche violenze genocide fra indù e musulmani in India e Pakistan, culminate con l’assassinio di Ghandi.

Non è stato un lavoro facile: più cercavo, più trovavo; ma più trovavo, più si allargava il campo, e si moltiplicavano nuove ricerche da compiere; il risultato finale – nel senso della conclusione del libro: ci sarebbe ancora tanto da trovare – è uno studio che raccoglie materiali provenienti da due archivi newyorkesi, quattro lingue (inglese, francese, polacco e italiano), 16 pagine di bibliografia (e non c’è tutto quello che ho letto). Ma più si accumulavano le carte, più capivo che era un lavoro che andava fatto. Céline ha detto una volta che ci sono due tipi di letteratura: c’è la letteratura, e c’è l’arte di costruire spilli per inculare le mosche (devo a Roberto Saviano questa citazione). A volte ho l’impressione che sia lo stesso per la ricerca storica: ma siamo un paese libero, ciascuno è padrone di costruire gli spilli che crede, se crede. Ma anche di togliersi i sassi dalle scarpe. E un sasso che mi tolgo volentieri è la constatazione che dopo il 7 ottobre 2023 si è creata una nuova, ennesima frattura nel discorso pubblico. Da un lato della barricata (perché di barricata si tratta) c’è stato chi ha capito che, quali che fossero le conoscenze possedute, era necessario rimettersi a studiare: quello che è successo il 7 ottobre, quello che è successo dopo, e quello che era successo prima. Dall’altro lato, ci sono quelli che credevano di sapere già tutto, e hanno continuato a interpretare un evento radicalmente nuovo con le stesse chiavi di lettura del passato: come don Quixote, hanno creduto di trovare nel mondo la conferma del proprio codice cavalleresco, continuando a scambiare mulini per giganti e contadine per principesse.
I bar sport immateriali si sono riempiti di nuove clientele – e non mancano, all’interno di queste, storici, o sedicenti tali – nelle quali, appoggiati al bancone con un cocktail di qualità analoga alle argomentazioni che si formano e si disfano nel va-e-vieni della chiacchiera, si esercita, quando va bene, «l’arte politica della compassione attentamente calibrata», e quando va male quella sorta di cinismo, che spesso scivola nell’infamia, che consiste nel risolvere il problema morale di decine di migliaia di civili assassinati con esercizi di benaltrismo, o semplicemente girando la testa altrove.
Col paradosso di ritrovare nelle parole del presidente Mattarella – come fosse un pericoloso estremista e non un moderato dotato di un minimo di buon senso e di coscienza cristiana – echi di rivendicazioni, peraltro giustissime, che si gridavano nei cortei tanti anni addietro: che i responsabili di questi crimini non debbano restare impuniti, che debbano, insomma, pagare tutti e pagare tutto.
In una nuova Norimberga, se possibile.

Quand’ero ragazzo ho avuto la rara fortuna di vedere dal vivo gli Area, e trovarmi a 2-3 metri da Demetrio Stratos che cantava «non è colpa mia se la tua realtà / mi costringe a fare guerra all’omertà», in una canzone che parlava di Palestina e palestinesi: Luglio agosto settembre (nero). La parola genocidio, che risuona oggi in un’opinione pubblica globale liberatasi dalla necessità di andare a rimorchio dei partiti e di praticare l’autocensura del politicamente corretto, è la vittoria di una guerra all’omertà. Ma per pronunciare la parola genocidio è necessario essere consapevoli di cosa questa parola comporta, come e quando è nata, perché un giurista polacco che era famoso (e benestante) in Europa prima della guerra ha scelto, rifugiatosi negli Stati Uniti, una vita di povertà francescana, invece di trovarsi un ben retribuito posto nelle università statunitensi, consumando il proprio fisico fino a morire di crepacuore a soli 59 anni per combattere una battaglia lunga una vita.

Il genocidio in corso a Gaza è solo uno degli aspetti di un più vasto attacco alle istituzioni internazionali – a partire dall’ONU e dalle sue agenzie, alle Corti di Giustizia che rendono espressiva la Convenzione, destinata altrimenti a rimanere una mera dichiarazione di principio, allo stesso Diritto Internazionale Umanitario, la cui esistenza è inscindibile dal riconoscimento che ci sono crimini che non possono essere legittimati dal diritto sovrano dello Stato che li compie, o che protegge chi li compie. Con le parole di Rula Jebreal: «la Palestina è il canarino nella miniera di carbone del nuovo autoritarismo mondiale», del nuovo imperialismo occidentale. Questa è la posta in gioco: il libro che ho scritto è quanto ho da dire, ma soprattutto da dare, a chi ha scelto di combattere dalla parte giusta, perché sa da che parte stare.

Questo libro è dedicato agli operatori dell’informazione e delle associazioni umanitarie e sanitarie assassinati nell’adempimento del proprio dovere morale di informare, soccorrere, restare umani; e alle amiche e amici, sorelle e fratelli di Mediterranea Saving Humans ed Emergency, e del Collettivo Euronomade – a chi c’è, e a chi anche se non c’è è presente ancor più di prima: ciascun∂ di loro è un anello della social catena che, sull’orlo dell’abisso, continua con testarda convinzione a trattenere l’orrore e a credere nella ricomposizione dell’infranto.

Il 28 novembre presento questo libro a Ferrara al Libraccio, assieme allo storico Pietro Pinna; l’1 dicembre lo presento a Bologna, all’Info Modo, assieme a Wu Ming 1.

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