L'inverno del nostro scontento
27 Ottobre 2025

Francesca Albanese: “Il genocidio di Gaza. Un crimine collettivo”

di Girolamo De Michele | 7 min

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Rendo disponibile la traduzione del nuovo rapporto della Relatrice speciale dell’ONU sulla situazione dei diritti umani nella Palestina occupata da Israele Gaza Genocide. A Collective Crime, trasmesso dal Segretario Generale dell’ONU il 20 ottobre scorso, con una mia presentazione. Questo testo è stato pubblicato sul sito del collettivo Euronomade.
scarica qui la versione in italiano del nuovo rapporto di Francesca Albanese (di Girolamo De Michele)
qui la versione originale in inglese

Lo scorso 16 ottobre Masha Gessen ha pubblicato sul New York Times un lungo intervento su Francesca Albanese, intitolato Her Optimism Has Won Her Some of the Most Powerful Enemies in the World. Si tratta, scrive Gessen, del “primo di una serie di articoli sui nuovi ed emergenti tentativi di mantenere la promessa di giustizia internazionale”, nel momento in cui le grandi potenze occidentali stanno operando per far sì che il diritto internazionale umanitario – che non hanno mai amato – resti a lettera morta. Masha Gessen, ebrea russa dissidente, profuga di fatto (in Russia è stata condannata in contumacia a 8 anni di prigione per aver diffuso “false notizie”), è un’editorialista di peso nella grande stampa statunitense, e non solo. È significativo che la sua inchiesta sullo stato critico del diritto e dei diritti nel mondo occidentale prenda l’avvio con un testo su Francesca Albanese. Ed è ancor più significativo il suo punto di vista, per l’autorevolezza sua e del giornale che la ospita, in confronto alle miserie degli organi di stampa italiani, ormai indistinguibili dai Bar Sport social, i cui frequentatori sono impegnati in una squallida campagna di linciaggio mediatico contro la Relatrice speciale dell’ONU sulla situazione dei diritti umani nella Palestina occupata da Israele. Campagna sulla quale non vale spendere parole – se non per ricordare che questo linciaggio mediatico è cresciuto in modo esponenziale da quando Albanese ha reso note le collusioni (e i profitti) di una cinquantina di grandi aziende globali con il genocidio in atto a Gaza.

È in questo contesto che cade la pubblicazione del nuovo rapporto di Albanese Gaza genocide. A collective crime. Un rapporto il cui contenuto potrebbe essere sintetizzato parafrasando il celeberrimo (ancorché apocrifo) scambio di battute fra Picasso e un ufficiale nazista davanti a Guernica:

– L’ha fatto lei questo rapporto immondo?
– No: lo avete fatto voi.

Il contenuto di questo settimo rapporto della Relatrice speciale ha infatti per oggetto il ruolo degli Stati terzi nel sostenere e supportare il genocidio attuato da Israele con il commercio di armi, che era già illegale, stante le norme vigenti, prima del 7 ottobre, e dovrebbe esserlo oggi a maggior ragione. Basti dire che si fatica a trovare qualche Stato con le mai pulite, e l’Italia non è certo fra questi pochi.

Cosa si intende qui per “armi”? Non soltanto quelle fatte e finite: ma anche componenti, parti, segmenti della catena militare – ad esempio, i pezzi di ricambio degli aerei F-35. Nonché i prodotti dual-use, cioè quelli che formalmente non sono armi, ma che possono essere impiegati come tali.

Per capire di quali violazioni si tratti basta leggere il paragrafo 6 del rapporto:

Il diritto internazionale impone a tutti gli Stati una serie di obblighi per rispettare, prevenire e porre fine alle violazioni, ovunque si verifichino. Nel contesto dei Territori Palestinesi Occupati (TPO), i più rilevanti sono:

(a) Tutti gli Stati hanno obblighi diretti nei confronti del popolo palestinese, in particolare l’obbligo di rispettare il suo diritto all’autodeterminazione e alla libertà dall’apartheid e dal genocidio, e nei confronti dello Stato di Palestina, nel rispetto dei principi di non interferenza, integrità territoriale, indipendenza politica e autodifesa.

(b) Obblighi erga omnes derivanti dalla grave violazione di norme imperative – l’obbligo di rispettare l’autodeterminazione del popolo, il divieto di genocidio, segregazione razziale, apartheid e acquisizione territoriale attraverso la forza da parte di Israele, tra cui: (i) un obbligo positivo di porre fine, individualmente e in cooperazione, a qualsiasi situazione illegale attraverso mezzi legali; e doveri negativi di non (ii) riconoscere come legale la situazione derivante dalla loro violazione, o (iii) prestare aiuto o assistenza per mantenere tale situazione.
(c) Obblighi di dovuta diligenza per prevenire specifiche violazioni del diritto internazionale, compresi gli obblighi di: (i) prevenire il genocidio (attivati quando si verifica un “rischio grave”); (ii) garantire il rispetto del diritto internazionale umanitario (attivato quando le violazioni sono “probabili o prevedibili”) e (iii) cooperare per prevenire crimini e attacchi contro persone protette a livello internazionale.

(d) Obblighi di astenersi dal prestare aiuto o assistenza, o partecipare direttamente ad atti illeciti a livello internazionale di altri Stati, tra cui aggressione, apartheid e genocidio.

Tutto ciò, che costituirebbe jus cogens, è stato nascosto sotto il tappeto degli scambi commerciali, delle partnership, degli investimenti finanziari, all’interno di una cornice narrativa che era già predisposta prima del 7 ottobre, e che a partire da quella data è diventata luogo comune:

Dopo il 7 ottobre 2023, la maggior parte dei leader occidentali ha ripetuto acriticamente le narrazioni israeliane, diffuse dai media statali e aziendali, ripetendo affermazioni di cui è stata dimostrata la falsità, e cancellando le distinzioni fondamentali fra combattenti e civili. Gli israeliani sono stati descritti come “civili” e “ostaggi”, e i palestinesi come “terroristi di Hamas”, obiettivi “legittimi” o “collaterali”, “scudi umani” o “prigionieri” legalmente detenuti. Attingendo a una lunga storia di “selvaggi” a cui sono state negate le protezioni del diritto internazionale, rilanciata dal discorso sulla guerra al terrorismo, gli Stati occidentali hanno contribuito a giustificare il genocidio contro i palestinesi (par. 20)

Proprio alla luce di questa narrazione dominante acquista valore l’aver imposto quantomeno la dicibilità della parola “genocidio”, come risultato di una guerra all’omertà, attraverso una mobilitazione mondiale dell’opinione pubblica che è infine esplosa anche in Italia, Così come acquista valore l’episodio della Sumud Flotilla, non solo come innesco o scintilla delle proteste del 22 settembre e del 3 ottobre, ma anche per il collegamento che si è creato fra i lavoratori dei porti di Genova e Livorno con i portuali si una lunga serie di Stati: Francia, Belgio, Marocco, Svezia, Spagna, Gibilterra, Cipro, Malta, Grecia, Creta e Stati Uniti.

Questo rapporto, come i precedenti, dei quali continua l’opera, fornisce nuove armi – quelle della critica, beninteso – alla lotta contro il genocidio. E al tempo stesso riqualifica questa lotta: non si tratta, infatti, di semplice empatia (che prima o poi qualcuno dovrà spiegarci cosa c’è di male nel provarla), ma di una opposizione a un sistema globale che, ammantato di ordine geopolitico, esige da un intero popolo litri di sangue e libbre di carne – sarà il caso di ricordare che Shylock è un mercante, e che il dramma shakespeariano è prima di tutto una feroce critica alla mentalità mercantile, entro la quale scompare nei fatti la distinzione fra ebreo e cristiano, così come fra ciò che col denaro si può fare e ciò che non si potrebbe fare. Un sistema nel quale oggi Israele funge da laboratorio di sperimentazione, sulla cavia palestinese, di tecnologie belliche, spionistiche, di controllo; sperimentazioni – si veda il libro di Antony Loewenstein Laboratorio Palestina (citato nel rapporto) – che vengono poi, dopo essere state testate in guerra, trasferite ai partner occidentali: il caso Paragon ne è un esempio lampante.

Concludendo, con le parole del rapporto:

Il genocidio di Gaza non è stato commesso da un solo Stato, ma come parte di un sistema di complicità globale. Anche quando la violenza genocida è diventata evidente, gli Stati, per lo più occidentali, hanno fornito, e continuano a fornire, a Israele sostegno militare, diplomatico, economico e ideologico, anche se Israele ha utilizzato come arma la carestia e gli aiuti umanitari. Gli orrori degli ultimi due anni non sono un’aberrazione, ma il culmine di una lunga storia di complicità (par. 67).

Che questa complicità debba cessare è un compito che va assunto. Nella consapevolezza che la battaglia in corso riguarda per un verso aspetti “contingenti” – il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e la persistente violazione degli obblighi internazionali da parte degli Stati complici del genocidio – che non sono presenti nel cosiddetto “piano di pace” Trump; ma anche, che la portata di questa lotta è ancor più vasta: in questo momento difendere il diritto internazionale umanitario sotto attacco, così come lo sono i diritti umai alla base della Costituzione americana negli USA di Trump, è un compito non solo radicale, ma rivoluzionario. Perché questa battaglia attacca il cuore dell’alleanza fra la nuova destra suprematista e (neo)fascista, e il capitalismo vecchio (quello “produttivo”) e nuovo (quello delle piattaforme): alleanza che con i diritti umani è di fatto, oltre che di ragione, incompatibile. Diritti che non sono sgorgati dalla mente di un dio, o dal cielo delle idee, ma sono stati conquistati con le lotte dei subalterni contro lo sfruttamento capitalistico, coloniale, razziale, patriarcale. La posta in gioco è questa: non da un fiume a un mare, ma lungo ogni fiume, fino a ogni mare e ogni montagna, per ogni popolo, in ogni angolo della Terra.

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