L'inverno del nostro scontento
11 Aprile 2025

Alessandro Coatti, come io lo ricordo

di Girolamo De Michele | 5 min

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Alessandro – ma lo chiamavamo il Coach – l’ho incontrato per la prima volta nel settembre 2002. O meglio, ci siamo incontrati: perché questo mio ricordo è anche il ripercorrere un’amicizia durata più di vent’anni, e che di certo non termina oggi. Per tre anni sono stato il suo insegnante di filosofia e storia; poi dopo il suo diploma, venuta meno la necessità istituzionale di darsi del “lei” e passati al “tu”, siamo stati amici, con lui e col piccolo ma prezioso gruppo di compagn* di classe. Ci si scambiava lettere, ogni tanto ci si incontrava a qualche evento – il Festival di filosofia di Modena, ad esempio –, ogni tanto riuscivamo a far coincidere le reciproche agende e ci si vedeva per una pizza in allegria. L’ultima è stata tra anni fa. Sembra ieri, e solo rigurdando le date capisco che è passato quasi un quarto di secolo, ed era ormai un uomo quello che continuo a chiamare “ragazzo”: per sempre ragazzo.
Un caro collega ha definito “felice” l’incontro fra me e il Coach e le nostre conversazioni (omettendo, per modestia, che al suo arrivo diventavano discussioni a tre, nelle quali ciascuno arricchiva gli altri). Erano incontri, veri e propri concatenamenti di pensieri, nei quali le idee non restavano isolate, ma si agganciavano l’una alle altre, e diventavano vortici che attiravano altre idee che altrimenti non avremmo visto passare.

Quegli anni sono stati per me un vero e proprio laboratorio: molti esperimenti didattici sono nati in quella situazione, e si sono poi rafinati negli anni successivi – ma i primi mattoncini erano lì, nel gruppo, col Coach e gli altr*. I pomeriggi a scuola per cercare di afferrare quel mostro proteiforme che è la globalizzazione, nell’intuizione che non c’è un solo sapere che possa renderne conto, e che bisognasse fare trasversalità, convocare le discipline più diverse e cercare una lingua comune; o una lettura della cosiddetta realtà trasversale alla fisica e alla filosofia. Esperimenti che non sarebbero andati a buon fine senza quel feedback che è la luce che si accendeva negli occhi del Coach e degli altr*, e senza la loro fattiva partecipazione. Perché alla fine ha ragione, come quasi sempre, Gramsci: nella scuola come in fabbrica, il punto è sempre se si vogliono liberare menti o produrre “gorilla ammaestrati” – è così facile ripiegare, per pigrizia, ignoranza, viltà, sulle lezioncine precotte e predigerite sulla stessa storia nello stesso libro con le stesse parole. Mentre il coraggio del sapere e della verità richiede menti aperte e coraggiose. Quella del Coach era una di queste menti: soprattutto, una mente impeccabile, non importa in quale campo della conoscenza si impegnasse, sempre con una leggerezza che aveva, credo, interiorizzato dalla sua amata Yourcenar. Il quarto anno azzardai una lezione su Gregory Bateson come moderno Giordano Bruno: rileggendo le lettere del Coach, Bateson ritorna continuamente come l’autore che gli ha insegnato che biologia e filosofia, le sue grandi passioni, non sono né contrapposte né alternative, sono la stessa cosa vista da due diverse angolature. Dieci anni dopo quella lezione, è parlando di Bateson in questi termini che il Coach vinse una borsa di studio al California Institute of Technology – salvo poi scegliere il Max Planck Institute di Francoforte, avendo superato il colloquio anche lì (e stiamo parlando dei livelli più alti della ricerca scientifica mondiale). Da Francoforte, un giorno, mi mandò una piccola foto in cui è seduto a mensa, assieme a un anziano signore – il premio Nobel John O’Keefe. E poi da Francoforte era tornato nella “sua” Londra, nella Royal Society of Biology, rinunciando alla strada universitaria nella quale si trovava a disagio per i ritmi, le richieste pressanti, la scarsa attenzione alla dimensione umana (è mai esistito un luogo nel quale uno come il Coach potesse trovarsi a proprio agio?). Ma aveva continuato a fare ricerca, pubblicando su Science, sempre muovendosi in quel particolare settore che sono i processi di conoscenza, più che gli oggetti del conoscere: come funziona un sistema vivente? Come apprende? Cos’è un cervello? Ma anche, scartabellando alla rinfusa fra le nostre lettere: cosa fa di John Cage e Philip Glass, che aveva conosciuto, un artista? Cosa accade davvero nell’Hamlet di Shakespeare? Cosa fa di preciso Marguerite Yourcenaire, quando traduce L’Infinito di Leopardi?

Capitava a volte che, nei nostri scambi, io cercassi una risposta urgente – mi riguardi questo passaggio sui saperi scientifici per un testo che sto scrivendo? – e lui invece riproponesse una riflessione avvenuta dieci anni prima, come fosse il giorno dopo. Una passione intellettuale non è uno yogurt, non ha la data di scadenza; i buoni concetti non inacidiscono con lo scorrere del tempo, né passano: stanno ancora passando, in verità.
Con lo stesso sguardo chiaro e impeccabile, Alessandro non ha mai smesso di interessarsi ai destini delle istituzioni culturali e scolastiche, consapevole che il pensiero ha bisogno di gambe, muri, lavagne. Anche stipendi, se permettete. Era a Pisa, da normalista, nei giorni in cui i monumenti diventavano teatro della protesta universitaria – sul ponte sull’Arno, con in mano l’Avviso agli studenti di Raoul Vaneigem, piuttosto che davanti alla Queen Elisabeth Hall, durante la protesta canora per i finanziamenti alla ricerca della Shell e degli altri giganti della devastazione ambientale, o ad Occupy London. Nei giorni del Covid-19, condivideva con i suoi contatti il bollettino della Royal Society of Biology, per contribuire a colmare quel vuoto di conoscenze nel quale si infilava la peggiore miseria umana. Né ha mai smesso di seguire la devastazione della scuola italiana, senza sconti per alcuno. L’ultimo scambio di lettere risale ai giorni in cui il ministro Valditara aveva preso di mira la preside del liceo da Vinci di Firenze – “c’è nulla che posso fare?”, mi chiedeva.

Rileggo le sue lettere, e mi colpisce una frase: quando scrive che la cultura umanistica e le neuroscienze di base collaborano attivamente, “questi due mondi orbitano da sempre l’uno intorno all’altro e si avvicinano sempre di più…”, e capisco che un giorno avremmo dovuto scrivere una cosa insieme, e abbiamo sempre pensato di avere tutto il tempo per aspettare quel giusto momento, e adesso quel tempo si è incurvato e non c’è più. E il mondo oggi è più povero.

 

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