
(foto di archivio)
“Come giovani cittadini e abitanti della zona Porta Catene ci siamo sentiti di tentare di avvicinare e conoscere queste famiglie che vivevano nel quartiere e versavano in una situazione di estremo disagio, con un alto tasso di analfabetismo ed in condizioni igieniche precarie”: inizia così il racconto della storia del campo nomadi di Ferrara, che andrà incontro a chiusura su decisione della nuova giunta ferrarese.
A ripercorrere il trentennale percorso del campo (inaugurato nel 1989) sono alcuni dei volontari che nel corso degli anni si sono alternati nel lavoro di assistenza: Gianni Belletti, Claudio Bertoni, Carlo Gambini, Livia Bonfa’, Cecilia Flammini , Gaetano Zanghirati, Lucia Forini, Silvia Sammaritani, Patrizia Moretti, Laura Turolla, Francesco Carrà.
“Negli anni 80, a Ferrara non esistevano aree di sosta autorizzate per famiglie nomadi – spiegano gli attivisti – e perciò avveniva una dislocazione spontanea sul territorio comunale : zona Porta Catene nel sottomura in prossimità del Palazzo delle (area dove ora sorge Semeraro), Via Veneziani, Via Modena, eccetera. Come giovani cittadini e abitanti della zona Porta Catene ci siamo sentiti di tentare di avvicinare e conoscere queste famiglie che vivevano nel quartiere e versavano in una situazione di estremo disagio, con un alto tasso di analfabetismo ed in condizioni igieniche precarie. E’ emersa l’esigenza da parte loro di trovare stabilità, mandare i bambini a scuola ed accedere ai servizi. Ormai il nomadismo da loro praticato era prettamente regionale e alcuni nuclei risultavano ormai stanziali”.
I volontari raccontano che “insieme con l’Opera Nomadi di Bologna abbiamo cercato di trovare una soluzione agli allontanamenti continui da queste aree di sosta non autorizzate che non permettevano l’iscrizione e la continuità a scuola; in seguito alla Legge Regionale 23 novembre 1988, n.47 sull’attuazione di campi nomadi, con l’amministrazione è stata riconosciuta la necessità di individuare una zona per la sosta. È stata quindi ricercata un’area idonea alla costruzione del campo, area che doveva essere ubicata in una zona tale da favorire l’integrazione nel tessuto sociale della città di queste famiglie (tutte italiane per inciso), ma non è stato possibile perché la cittadinanza dei vari quartieri individuati di volta in volta (Via Canapa, Via Modena, ecc.) si è dichiarata contraria “costringendo” alla scelta di un’area lontana dal centro abitato, dalle scuole e non servita dai mezzi pubblici”.
“L’apertura del campo nel 1989 è stata – proseguono i volontari – un’azione dovuta da parte della città per il riconoscimento della dignità di queste persone e in questi 30 anni i bambini hanno frequentato le scuole e il sistema educativo ferrarese si è adoperato egregiamente per creare progetti e percorsi per questi bambini e adolescenti che hanno iniziato per primi ad approcciarsi all’esperienza scolastica. Volontari ed educatori hanno svolto attività all’interno e fuori dal campo e sono stati attuati interventi sicuramente validi e importanti per il sostegno di queste famiglie, cercando di rispettare la loro specificità culturale. Concordiamo che dopo 30 anni la logica del campo nomadi vada superata, ma occorre trovare da parte dell’amministrazione comunale proposte abitative o piccole aree di sosta che permettano a questi cittadini ferraresi di vivere in condizioni più dignitose senza prevedere come unica soluzione finale lo sgombero del campo”.
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