Economia e Lavoro
21 Agosto 2018
Nel 2011 Michele Pagliero ha salvato un piccolo laboratorio tessile in zona artigianale e da allora la sua azienda è in costante crescita

Dal Giappone alla Scandinavia, il cachemire ferrarese di Settefili alla conquista dei mercati

di Ruggero Veronese | 4 min

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Al centro, Michele Pagliero nel laboratorio di Settefili

Non tutti sanno che l’Italia è il primo paese al mondo per lavorazione del Cachemire, un settore in costante crescita che solo nel 2016 ha visto un giro di esportazioni a livello mondiale pari a 1,6 miliardi di dollari. E da sette anni anche Ferrara gioca in questa partita un ruolo di tutto rispetto: merito di un piccolo ma raffinato laboratorio nella zona artigianale che costeggia via Wagner, dove nel 2011 l’imprenditore bolognese Michele Pagliero ha deciso di trasferire da Milano tutta la produzione del marchio Settefili. “E da allora – ci racconta – la nostra crescita è stata costante”.

A guidare Pagliero verso la città estense fu la notizia della chiusura di uno storico laboratorio tessile, che pur lavorando con altri tipi di materiali (lana e cotone) era conosciuto nel settore per l’elevata capacità delle sue otto dipendenti. “Abbiamo puntato tutto sulla qualità del loro lavoro – racconta oggi Pagliero – e siamo stati ricompensati. Conoscevo la professionalità di questo laboratorio e non volevo che si disperdesse. All’inizio siamo partiti con una sola delle vecchie dipendenti, ma mano a mano che abbiamo fatto quadrare i conti siamo riusciti a recuperarle tutte”.

Da Ferrara al Giappone, dove Settefili ha i principali distributori esteri

La storia di Settefili inizia però in una città più abituata all’alta moda: Milano. “Quando sono partito – racconta Pagliero – volevo creare un marchio che rispecchiasse la qualità del made in Italy, visto che la nostra distribuzione si basa al 90% sull’export, in particolare in estremo oriente, Scandinavia ed nell’Europa centrale. La produzione e lavorazione del cachemire si è diffusa molto a livello mondiale in questi anni, ma non c’è niente da fare: il livello dei capi italiani risalta su tutto il resto. In Giappone fanno controlli maniacali sulla qualità e, se riesci a vendere lì, significa che il tuo prodotto è davvero importante. E infatti negli ultimi 10 anni hanno investito moltissimo per copiare la filatura italiana, tra l’altro con risultati eccellenti, ma nonostante questo il loro mercato continua a preferire il made in Italy”.

In Italia la tradizione del cachemire ha origine lontano da Ferrara, e in particolare nella provincia biellese (in virtù delle caratteristiche delle acque di alcuni torrenti di montagna che consentono un’ottima lavorazione della materia prima) e in Umbria, che con la sua lunga tradizione nel comparto tessile è diventata un importante centro per la successiva tessitura. Ma dopo sette anni Pagliero può trarre un bilancio della sua esperienza a Ferrara. “Credo che a volte i ferraresi non si rendano conto della qualità della vita in questa città – afferma l’imprenditore -. È vero che ha le sue zone d’ombra, come ormai succede ovunque, ma è un luogo dove chi vuole lavorare può trovare tranquillità e professionisti di alto livello. Ho trovato una terra che mette una grande passione nel lavoro, e che dovrebbe solo abbandonare un po’ quel pessimismo che a volte fa passare in secondo piano queste virtù”.

Oggi la grande sfida del marchio di Pagliero sta soprattutto nel confronto con i grandi colossi del settore: come ci si muove in un mercato così competitivo? “Il mio background è commerciale – spiega l’imprenditore -, quindi mi occupo in prima persona della rete di contatti e di distribuzione. La nostra fortuna è quella di aver disegnato e prodotto diversi capi di maglieria per uomo che hanno avuto un grande successo: un tipo abbigliamento elegante ma allo stesso tempo comodo e leggero. Penso che questa sfida si possa vincere solo attraverso le idee e la dinamicità, che del resto sono le doti storiche di noi italiani. Non ripeteremo l’errore degli scozzesi”.

La Scozia fu infatti il primo paese nel dopoguerra a intuire le potenzialità del cachemire, ovvero della lana prodotta da alcune capre asiatiche, in particolare quelle autoctone di Mongolia e Afghanistan. Ma quasi tutta la produzione scozzese si concentrò su indumenti grezzi e poco curati, soprattutto spessi maglioni adatti ad affrontare grandi sbalzi termici grazie alle caratteristiche peculiari del materiale. “Ma lì si sono fermati – racconta Pagliero – e poi non si sono più mossi. Allora negli anni ‘70 alcune maglierie italiane hanno capito che potevano usare quel materiale straordinario adeguandolo alla moda e allo stile italiano: oggi siamo i primi al mondo”. E poco lontano da via Wagner, in un insospettabile capannone adiacente alla campagna, c’è chi contribuisce a questo primato.

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