(foto di Luciano Milano e Floris Van Den Berg – ©PNRA/IPEV)
Un lungo (e freddissimo) anno nella ‘terra dei ghiacci’. E’ la sorprendente avventura vissuta dal ferrarese Luciano Milano, tecnico elettronico del Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra dell’Università di Ferrara, appena tornato da una spedizione in Antartide. Il tecnico universitario ha trascorso gli ultimi 12 mesi al Polo Sud per effettuare diversi esperimenti scientifici nella base italo-francese Concordia ma la sua esperienza va ben oltre il lavoro. Ce la siamo fatta raccontare direttamente da Luciano Milano perché certe prove al limite dell’umano vanno sentite dalla bocca del diretto interessato.
Come è stato trascorrere un anno in un territorio ai confini del mondo, definito “uno dei luoghi più ostili, freddi, secchi, e isolati del nostro pianeta”?
Utilizzando solo aggettivi non si può arrivare a rendere l’idea… La base italo-francese Concordia è un avamposto umano collocato in uno dei luoghi più isolati ed inospitali del pianeta: le temperature d’inverno arrivano a superare i -80 °C, l’ossigeno presente nell’aria è ridotto del 35-39%, le precipitazioni sono quasi assenti (così come l’umidità dell’aria) ed il luogo è soggetto a tre mesi di notte polare. Tuttavia l’Antartide ha un ruolo cruciale nel determinare il clima dell’intero pianeta, da qui la necessità di effettuare ricerche in questo luogo ed in particolare Dome-C dove è situata la nostra base. Ma bisogna adattarsi, sia fisicamente, a vivere in condizioni di ipossia a causa della quota a cui si trova la base (3233 metri reali e 3800 percepiti), sia psicologicamente, a vivere per lungo tempo in un ambiente multiculturale confinato.
L’arrivo è stato traumatico o il primo impatto è stato positivo?
L’arrivo a Concordia è stato assolutamente entusiasmante per varie ragioni: lo stranissimo viaggio che richiede alcuni giorni, conoscere la base ed imparare a viverci nel rispetto delle regole necessarie alla salvaguardia dell’ambiente, il passaggio di consegne dal precedente “invernante” circa le attività da seguire, i rapporti con tecnici e personale scientifico proveniente da tutto il mondo, pensate che, durante i tre mesi estivi, la base è arrivata ad ospitare oltre 80 persone. Nell’arco di alcuni mesi però, il personale estivo ha lasciato la base e siamo rimasti solo noi componenti del team “invernante”. Nel mio caso il cosiddetto DC-12 (dodicesima spedizione invernale) che era composto da dodici persone: cinque italiani, cinque francesi, un belga ed un olandese. Siamo rimasti isolati dal resto del pianeta per nove mesi a causa delle condizioni climatiche che impediscono agli aerei di raggiungere la base. Piano piano la frenesia delle attività lavorative estive ha lasciato il posto all’autogestione della base in tutti i suoi aspetti tecnologici e scientifici in un rapporto di interdipendenza reciproca a tutti i livelli: dalla produzione dell’energia elettrica, a quella dell’acqua ricavandola dalla neve, riparazioni, antincendio, sicurezza, ecc, oltre alle singole attività tecniche e scientifiche di ciascuno di noi.
E’ davvero un test alla Bear Grylls o tutto sommato è affrontabile ai più?
Imparare ad operare in quel luogo richiede settimane di impegno, si ricomincia da zero. Bisogna imparare a vestirsi, a respirare e a camminare, nel senso che, a causa della bassa percentuale di ossigeno presente nell’aria, i nostri limiti fisici, a cui siamo abituati a livello del mare, si abbassano di molto, ed è facilissimo andare in affanno specialmente all’esterno dove il fisico è già impegnato a contrastare la temperatura dell’aria che respira, pertanto è importante ascoltare i segnali del nostro corpo ed adattare ad essi le nostre attività, compresa la velocità negli spostamenti.
Qual è stato il momento più bello dell’esperienza e, per contro, quello più difficile?
Il momento più bello è stato certamente arrivare a Concordia ed iniziare a lavorare lì ed a conoscere meglio i miei compagni, quelle persone con cui, da lì a poco, avrei stabilito un profondo rapporto di amicizia; complice, in questo, la condivisione di un anno intero di esperienze forti, tra solidarietà, sfide, gioie e problemi da superare insieme. Il momento più difficile è stato senz’altro doverli salutare e separarmi da loro.
Cosa le è mancato di più?
Piano piano, ho cominciato ad accorgermi che, oltre agli affetti, mi mancavano le cose più ovvie, ad esempio i profumi della natura: quello dell’erba, delle foglie cadute, dei fiori, della pioggia e perfino della nebbia! E la natura in generale con i suoi colori, i suoi suoni e animali, ma anche semplicemente passeggiare nella nostra magnifica città. Il paesaggio a Dome-C è splendido nella sua stranezza, nella sua asprezza e nella sua unicità, ti colpisce e ti rimane dentro, ma è privo di tutto quanto ho appena menzionato…
Per farci una idea, le va di descriverci una giornata tipo alla Concordia?
La giornata inizia alle 8 con la riunione tecnica, successivamente ciascuno di noi inizia le proprie attività specifiche, si pranza alle 12 e si cena alle 19.30. Il ruolo che ho ricoperto a Concordia è stato di “elettronico per la scienza” e pertanto mi sono occupato della gestione di una decina di esperimenti installati nella base e negli shelter dislocati nelle vicinaze. Normalmente la giornata inizia con il loro controllo e, se questi mostrano anomalie, si deve provvedere ad effettuare gli opportuni interventi, alcuni possono essere attuati dalla base mediante il controllo remoto, altri invece richiedono operazioni presso lo shelter in cui sono installati e pertanto si deve uscire. Inoltre ci sono le periodiche calibrazioni e misurazioni da effettuare, e tutto questo è ancora la normalità. Vi possono essere poi grossi imprevisti che richiedono risposte immediate da parte di più persone, bisogna pertanto essere flessibili e disponibili per lavorare in questo luogo, spesso la giornata inizia tranquilla ma col passare delle ore si arriva a dover saltare il pranzo o la cena.
Come è stata la convivenza con gli altri studiosi?
Inizialmente è stato un po’ strano collaborare e convivere 24 ore su 24 con persone quasi sconosciute, parlando quasi sempre una lingua diversa dalla propria, cercando pure di conciliare le abitudini alimentari di 4 nazionalità diverse nel rispetto di tutti ma poi, come dicevo prima, i rapporti tra noi sono diventati sempre più personali e fraterni, abbiamo acquisito una fiducia ed intesa reciproca che considero veramente rara. Le esperienze fatte insieme ci hanno unito in un modo che credo non si possa comprendere appieno se non lo si sperimenta di persona.
Domanda di rito, con il senno di poi lo rifarebbe?
Questa per me è stata un’esperienza veramente unica! Per l’impegno fisico che ha richiesto, per le particolarità nel lavorare in quel luogo, e per la durata della spedizione. Ma anche per l’intensità dei rapporti umani e delle sensazioni ed emozioni provate. Non so quanto tempo mi servirà per metabolizzarla completamente… Vedremo tra qualche tempo quali saranno i miei sentimenti dominanti nel ricordarla, non escludo a priori di ripeterla ma questa decisione non spetta solo a me. Ne approfitto per ringraziare l’Università degli studi di Ferrara, di cui sono dipendente, per aver acconsentito alla mia partecipazione alla XXXI spedizione in Antartide e alla XII invernale, e il PNRA (Programma Nazionale Ricerche in Antartide, che e’ attuato dal CNR per la parte scientifica e dall’ENEA per la realizzazione logistica delle spedizioni) e l’IPEV (Institut polaire français Paul-Emile Victor) per averla resa possibile.
C’è davvero così freddo? Come è sopravvissuto? Noi ferraresi ‘medi’ andiamo in tilt appena ghiaccia..
Si, è davvero così freddo, ma è un freddo diverso da quello a qui siamo abituati alle nostre latitudini in quanto l’umidità dell’aria è prossima allo zero a causa delle basse temperature che la fanno congelare e precipitare. Basta coprirsi adeguatamente e non lasciare scoperta nessuna porzione di pelle, specialmente se c’è vento. Una volta che si è imparato a vestirsi il freddo non è più un problema, se non per la maschera che, dopo qualche minuto, tende a ricoprirsi di uno strato di ghiaccio, specialmente quando le temperature sono oltre -40°C. Semmai i problemi nascono nel caso in cui ci si debba togliere uno dei tre paia di guanti che si indossano normalmente, il più esterno e voluminoso, a volte lo si deve fare per compiere operazioni di precisione ecco, in questo caso, se la temperatura è di oltre -50°C, si resiste pochi secondi e poi le dita iniziano a dolere in modo assurdo. Le difficoltà maggiori nell’operare esternamente sono derivate dall’unione delle basse temperature e della bassa pressione che costringono il sistema cardiocircolatorio al super lavoro, sia per consentire al fisico di compiere il lavoro richiesto avendo una ridotta quantità di ossigeno a disposizione, sia per la necessità di contrastare la temperatura dell’aria respirata, ma il corpo umano è davvero una macchina meravigliosa ed è in grado di far fronte anche a situazioni di questo tipo.