Rifiutava le armi e a divisa, ma non di adempiere al proprio dovere per lo Stato. E nel gennaio del 1949, pochi mesi dopo essere stato chiamato in servizio e assegnato alla Scuola Allievi di Lecce, rifiutò di partecipare agli addestramenti militari e chiese di poter adempiere a un servizio alternativo e non violento. Qualunque mansione, anche ad altissimo rischio. Anche il rastrellamento di terreni minati. Pietro Pinna, nato a Finale Ligure nel 1927 ma ferrarese fin dai primi anni, è stato il primo obiettore di coscienza del nostro paese, il giovane il cui gesto di disobbedienza diede il via al dibattito in Italia sull’obbligatorietà del servizio militare e sulla successiva introduzione del servizio civile. È morto ieri, 14 aprile, a Firenze, dopo una vita passata a lottare per la causa del pacifismo e della non violenza.
Secondo le cronache dell’epoca, Pinna maturò il proprio rifiuto per la violenza durante l’adolescenza, coincisa con gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Viveva a Ferrara quando nel settembre 1948 arrivò la chiamata di leva, ma i suoi addestramenti durarono solo pochi mesi: in gennaio inviò un’istanza scritta al Ministero della Difesa per chiedere che gli fosse riconosciuto lo status di obiettore di coscienza e per essere assegnato a un servizio alternativo, come già avveniva in paesi come il Regno Unito.
Ma l’Italia non era ancora pronta per una svolta culturale di questo tipo. La legge prevedeva l’obbligatorietà del servizio militare e il disertore Pinna fu arrestato, imprigionato e processato per disobbedienza aggravata. Il processo salì alla ribalta delle cronache nazionali: al fianco del giovane ferrarese si schierarono anche (in qualità di testimoni della difesa) figure come il ‘Ghandi italiano’ Aldo Capitini ed Edmondo Marcucci, mentre i suoi avvocati difensori erano Bruno Segre e Agostino Buda, due nomi noti negli ambienti del pacifismo italiano. E il fatto che in gioco ci fosse ben più della fedina penale di un normale 22enne risulta evidente anche dalla requisitoria del procuratore al termine del processo: “Non possiamo permettere – che si vada contro i concetti fondamentali costitutivi; se come uomini possiamo indulgere a considerazioni di carattere etico – morale, come magistrati e militari dobbiamo attenerci scrupolosamente a quanto il codice ci impone. Tutto ciò che turba l’esercito va guardato con occhio sospettoso e severo. Necessita una condanna severa, non tanto per il Pinna, quanto per i principi che voi – giudici rappresentate. Per questo chiedo che il soldato Pinna sia condannato”.
Lo stesso Pinna prese parola durante il processo, spiegando che il suo non era un rifiuto di servire lo Stato, ma la volontà di farlo in un modo che non prevedesse la violenza: “Nessuna legge – queste le sue parole – deve cercar di violentare la coscienza di un individuo al punto di impedirgli di realizzare i suoi destini, di vivere per quei principi a cui si sente nato e nei quali trova la sua ragione di esistenza come uomo. Mi si dice che il dovere di ogni cittadino è innanzitutto quello di servire la patria. Ma io non mi sogno neppur lontanamente di rifiutarmi a questo: chiedo soltanto che la patria escogiti un servizio in cui i suoi figli non siano costretti a tradire i principii della loro coscienza di uomini ed essi allora (ed io con loro, primo) saranno felici e onorati di servirla e di donarlesi”.
Pinna fu condannato a 10 mesi di reclusione con la condizionale, attraverso una sentenza in cui il giudice cercò un ‘compromesso’ tra le due linee: da un lato occorreva mostrare che le argomentazioni del giovane non erano state ininfluenti sul tribunale, ma dall’altro ci si trovava di fronte a quello che – nella sostanza – era un reato previsto dal codice penale. Il ‘disertore’ uscì dal carcere, ma si trovò di fronte a un nuovo paradosso: formalmente risultava ancora in attesa di svolgere il servizio militare e fu quindi chiamato nuovamente in servizio alla caserma di Avellino. La storia ricominciò da capo: Pinna rifiutò di partecipare agli addestramenti e fu nuovamente arrestato e imprigionato. Ma questa volta il tribunale militare agì d’anticipo e lo processo per direttissima, con tempistiche talmente brevi da impedirgli di chiamare gli avvocati di fiducia e costringendolo ad affidarsi un difensore di ufficio. Il 5 ottobre 1949 arrivò la nuova sentenza di condanna: otto mesi di reclusione senza condizionale, e per Pinna si riaprirono le porte del carcere.
Ma nel frattempo il muro di silenzio stava finalmente crollando: nei mesi successivi Umberto Calosso, deputato del Partito Socialista, portò il caso in parlamento e parlò di gravi irregolarità nell’istruttoria del processo e della validità delle argomentazioni del giovane ferrarese. La sua liberazione giunse in dicembre, ma solo per effetto dell’Amnistia dell’Anno Santo (che Pinna cercò invano di rifiutare). Nel frattempo la politica cominciava a parlare di servizio civile, che tuttavia rimase un sogno irrealizzato per Pinna che, per la terza volta, fu chiamato in servizio. Ma il suo era diventato ormai un caso fin troppo scomodo e imbarazzante e a mettere una croce su tutta la vicenda fu il medico militare, che lo riformò per “nevrosi cardiaca”. Una sconfitta per tutti: sia per il ministero della Difesa, che non era riuscito a reintegrare il ‘disertore’, sia per lo stesso Pinna, che aveva cercato invano un modo alternativo per servire lo Stato. Ancora una volta la rigidità di leggi e regolamenti aveva schiacciato l’etica e il buon senso.
Negli anni successivi Pinna fu una figura determinante nel Movimento Nonviolento, di cui fu segretario dal ’68 al ’76, e della rivista Azione Nonviolenta, di cui era ancora direttore responsabile al momento della morte. Finì in carcere anche negli anni ’70 per episodi giudicati come vilipendi alle forze armate, per poi essere graziato dal presidente della Repubblica Giovanni Leone. In sua memoria pubblichiamo un intervento di Daniele Lugli, presidente ferrarese del Movimento Nonviolento.
Grazie per aver letto questo articolo...
Da 18 anni
Estense.com offre una informazione indipendente ai suoi lettori e non ha mai accettato fondi pubblici per non pesare nemmeno un centesimo sulle spalle della collettività. Il lavoro che svolgiamo ha un costo economico non indifferente e la pubblicità dei privati non sempre è sufficiente.
Per questo chiediamo a chi quotidianamente ci legge e, speriamo, ci apprezza di darci un piccolo contributo in base alle proprie possibilità. Anche un piccolo sostegno, moltiplicato per le decine di migliaia di ferraresi che ci leggono ogni giorno, può diventare fondamentale.
OPPURE se preferisci non usare PayPal ma un normale bonifico bancario (anche periodico) puoi intestarlo a:
Scoop Media Edit
IBAN: IT06D0538713004000000035119 (Banca BPER)
Causale: Donazione per Estense.com