Ai Lettori. Vi propongo un altro racconto, figlio del Terra Ferrarese. Si tratta d’una storia, raccolta a Bondeno alcuni anni fa, che ho riportato cambiando, o mascherando, nomi. Non m’interessa la colorazione politica dell’evento. I personaggi (in buona o cattiva fede … chi può giudicare?) sono figli d’un popolo, che pagò spaventosamente sulla propria pelle quel tremendo evento che l’uomo inventò, praticamente dall’inizio della sua storia, e che non ha mai abbandonato: la guerra! Scritta in Italiano con traduzione, per chi vuole esercitarsi, nel nostro bel Dialetto Ferrarese.
Buona lettura, Maurizio
“Śghét”, Madre Coraggio a Bondeno.
Ferrara, è una delle prime giornate di Primavera. Decido di fare una passeggiata in bici da corsa, l’hobby che mi consente di spaziare nella piatta campagna Padana, attorno alla Città. Il percorso che prediligo, quasi per destinazione naturale, è in direzione dei luoghi ove trascorsi lunghi, spensierati, periodi della mia infanzia: Bondeno, suoi canali, i fiumi Po e l’affluente Panaro. La fastidiosa nebbia, che ha imperversato per settimane s’è dissolta finalmente; il sole, uscito come da una nicchia oscura, ha aperto una fenditura nel cielo la quale gradualmente si espande elargendo luce, fantasmagorica emanazione, predominante messaggio di vita! Man mano che il vento del mattino m’accarezza la fronte, s’aprono in me i ricordi, la nostalgia di lontani giorni: la pesca, i giochi, le nuotate, i primi amori … Nel frattempo esplodono alla mia vista, nella campagna che taglio lentamente col silenzioso mezzo di trasporto; abbacinanti colori degli alberi da frutta ed il verde dei prati, macchiati dalla magia di numerosi fiori spontanei, nel disegno che “Madre Natura” ha realizzato in una disordinata forma di architettura: apparentemente casuale nella sua perfezione!
Intraprendo il viaggio, verso le località Diamantina o Ravalle, su strade poco trafficate. La vecchia statale Virgiliana è purtroppo rimasta tale quale per decenni, stretta e tortuosa, col traffico d’oggi avventurarvisi in velocipede, equivale a voler sfidare la morte!
Arrivato a Bondeno, mi assale quasi prepotentemente un pensiero: il desiderio di rivedere un certo luogo, ove si sviluppò una storia. Piego verso l’argine del Panaro; vorrei rivedere se esiste ancora una casa … situata nella golena del fiume. Ho come un tuffo al cuore, c’è ancora, diroccata, ma è là!
Si trova a pochi metri dall’alveo del fiume, parzialmente coperta da: rovi, piante rampicanti, erbacce, fino quasi a far sparire ciò che rimane del caseggiato d’un tempo, ma i muri si conservano integri.
Sono stanco, è il primo giorno d’uscita dopo l’Inverno; appoggio la bici ad un pioppo e mi siedo, sono assorto, penso ad … Agrippa, (nome poco femminile, probabile frutto della fantasia anarcoide del padre!) Che così si chiamasse, pochi lo sapevano, in verità tutti nel circondario la chiamavano “Śghét” (dall’italiano rondone,) o“Śghitina”, probabilmente per la maniera velocissima, quasi nervosa, un po’ pittoresca perfino, di muoversi ed anche indubbiamente, per la magrezza, il viso segaligno e le vesti che indossava: sempre costantemente nere!
Mi sdraio sull’erba tepida di sole, comincio a volare col pensiero verso un pomeriggio autunnale del “quarantatre”; allorché per caso, udii prorompenti urla, pianti, che debordavano agghiaccianti dall’unica finestra situata sul retro della casa, (a quei tempi naturalmente abitata,) delle cui rovine ora sono attratto. Era Śghitina, inconfondibile … lei!
Mi trovavo seduto in riva al fiume, armato di un paio rozze canne da pesca. Stavo cercando di catturare qualche pesce gatto; preda facile da trarre a riva perché il fiume, non inquinato a quei tempi ospitava gran quantità di quella specie, e pure di tante altre varietà e dimensioni!
La curiosità, mista ad un non so ché di spavento mi fece sobbalzare. Abbandonate le canne da pesca, mi alzai con precauzione, avvicinandomi cautamente lungo il sentiero, accostai il viso alla finestra dell’abitazione da cui uscivano quei terribili schiamazzi.
Le persiane semichiuse mi permettevano la visuale senza essere scoperto. Con circospezione, tremando dall’emozione e dalla paura, cercai d’insinuare l’occhio per capire ciò che succedeva di tanto clamoroso: ebbene, le immagini ed i suoni che il mio cervello catalogò nei minuti successivi rimasero per la vita entro il mio essere, dentro la nicchia dei ricordi incancellabili!
Nell’unica grande stanza, che costituiva la parte bassa della casa, v’erano quattro persone: Agrippa, due personaggi dall’espressione truce, che mi apparvero giganteschi, vestiti di nero ed armati di mitra e L. un individuo del quale si diceva fosse una spia; segnalatore di disertori, o per meglio dire, di soldati sbandati, dopo “l’otto settembre”; fuggiti a casa in quel nebuloso, e poco glorioso periodo storico per il nostro Paese.
“Śghét”, coi pugni chiusi sul tavolo, fissava negli occhi L. e non piangeva più. Imprecava in dialetto:
-Brutto animale che non sei altro, prendi il mio sangue, ma lasciami il figlio. Non ricordi di Tristano, mio marito, morto nella Grande Guerra? e la medaglia che mi avete dato? e il figlio grande, Oreste, morto in Russia che un mese fa m’è arrivato da poco il telegramma, te lo sei dimenticato? Non siete stanchi del mio sangue? Ne volete altro brutto spione, e voi? “Tupin” * della malora, non avete fratelli? Non avete un padre o una madre?-Ora parlava quasi sottovoce; li osservava stringendo gli occhi ridotti a fessure. Non urlava più, sibilava la sua rabbia ed il proprio dolore. Iniziò ad avvicinarsi lentamente.
Ad uno ad uno scrutava gli uomini, stupiti ed ammutoliti, probabilmente sorpresi da tanto coraggio, indietreggiavano lentamente.
Cominciò a percuotere coi suoi piccoli pugni L., fissandone gli occhi dal basso all’alto. Sibilava offese pesanti, sempre in dialetto, ma poi, gradatamente l’espressione del viso s’addolcì sorprendentemente, rassegnata, consapevole del prezzo che avrebbe pagato per la sua ribellione. Intuiva che il figlio nascosto su nel fienile, sarebbe stato catturato e deportato chissà dove, sapeva che pure lei rischiava qualcosa di grave, ma ciò non la spaventava; si sentiva presa dalla frenesia, della rabbia e della ragione, che prescinde il raziocinio a volte fa dimenticare qualsiasi forma di prudenza!
L., pallido come un lenzuolo tremava di stupore o nervosismo forse, per non essere in grado di vincere la resistenza di quella specie di … uccellino! Taceva, quasi rapito, quasi contemplante!
Intanto, spostandosi di lato lentamente, la donna, replicò il rito anche con gli altri uomini armati.
Discorreva più dolcemente ora, rassegnata, cercava di ricordare loro le mamme, i fratelli, le famiglie; nessun avvocato difensore avrebbe gestito arringa in modo più misurato, sempre più accorto, pure perfino durante taluni passaggi verbali … accorato!
Poi, improvvisamente, mentre la tragica logica delle cose lasciava presagire una drammatica conseguenza per tanto ardire, ebbi l’imprevista, sorpresa di notare che gli uomini, scambiatosi un cenno, dopo un parlottio sommesso, partirono salendo sull’auto Balilla posteggiata fuori, alzando un enorme polverone per la repentina, nervosa accelerata al motore e conseguente veloce partenza
-Jè andà, jè andà vié!- (Sono andati, sono andati via!)- Otèlo, jè andà!- Urlò la donna, abbattendosi seduta vicino al tavolo ed allungando le braccia come a volerlo abbracciare. Poi, singhiozzò in modo innaturale, liberatorio, quasi animalesco. Otello era salvo … almeno per ora, poi chissà!
Trascorsi pochi secondi, si aprì il portone che dava al fienile, ed un ragazzo, sudato e paonazzo per il pericolo scampato, si gettò fra le braccia di quel piccolo essere nero, piangendo urlandole il proprio amore e riconoscimento!
Nella mia vita ho avuto modo di assistere a tante scene, drammatiche e commoventi, in decine di films o commedie teatrali, ma … quell’abbraccio urlato e straziante …
Fortunatamente quell’atto sublime, un po’ incosciente, di coraggio, non fu vano! Il figlio fuggì verso luoghi più sicuri, finita la guerra, terminò gli studi che aveva intrapreso. Ora ha una bella famiglia ed è personaggio carismatico in Bondeno. Agrippa, morì serena a novant’anni. L. fuggito all’estero con la famiglia, fece perdere le sue tracce, verso un oblio che nessuno vuol più rimuovere.
Gli uomini in nero, venuti da fuori, erano sconosciuti in paese, tali sono rimasti; probabilmente poveracci, non in grado di intendere il male che causavano, plagiati con chissà quali sciagurati indottrinamenti!
Ho gli occhi socchiusi mentre penso alla storia, quand’ecco dal nulla odo come un cigolio proveniente dalla strada sull’argine. Ciò m’incuriosisce, appare don Gino, pedala verso me sulla sua vecchia Bianchi da donna, fonte di quel rumore un po’ anomalo. Si ferma, indossa l’abito talare che ormai nessun prete porta.
La stoffa è lucida in più punti a causa di chissà quanti passaggi con il ferro da stiro. Lo osservo sbigottito, non è molto diverso d’aspetto dopo tanti anni; però noto un’espressione fra l’ attonita e l’assorta: strana, molto insolita! Il viso che ricordavo rubizzo è di un pallido innaturale:
-Cicio, ancora chì a pansàr a clà storia?-(Ciccio, di nuovo qui a pensare a quella storia?) A lui piace parlare in dialetto con la gente! Mi meraviglio che mi chiami col soprannome che nessuno usa da anni!
-Che volete reverendo, se fossi ancora credente dedicherei di buon grado qualche preghiera alla Śghitina!- Don Gino mi osserva ed il suo viso si apre ad un enigmatico sorriso, simile a quello che rese famosa La Gioconda di Leonardo; espressione intraducibile: emette un profondo sospiro, poi sussurra:
-L’hai già fatto! – Probabilmente è una teoria religiosa poco originale, tuttavia in questo caso, ho l’impressione che mi si addica! Dopo pochi istanti, mi prende una strana sonnolenza improvvisa, ”devo” chiudere gli occhi e crollo addormentato! Mi sveglia il latrato di un cane. C’è un vecchio vicino all’animale, lo riconosco è Ultimo, detto “Plinto”, mi alzo, inforco la bicicletta e lo saluto, mi ha riconosciuto. Si parla del più e del meno, poi e gli chiedo:
-Hai visto passare don Gino? Ancora quella bicicletta, ancora la vecchia veste, che prete!-
-Don Gino? Mo sa gh’at da bévar in tlà buracia, dlà grapa? Quél ’è mort da un bel toch; bevi poch se t’an supurt brisa l’alcol!-(Don Gino?ma che hai da bere nella borraccia da ciclista, della grappa? E’ morto da molto tempo; bevi poco se non sopporti l’alcool!) E se ne va sghignazzando per le battute, seguito dal cagnolino.
Inizio spingere sui pedali della bicicletta, un po’ stralunato, avverto insinuante un brivido alla schiena, ma sento che non è a causa del freddo … no! Ho dunque sognato? Probabilmente sì, ma com’era reale il Don … peccato fosse solo sogno! Prima di lasciare la golena del fiume, butto l’occhio verso quel rudere … Vola piccola coraggiosa “Sghèt”, vola nella mia memoria, dimenticarti? Mai!
F I N E
* I «TUPIN» erano una compagnia inquadrata nella Guardia Nazionale Repubblicana, ma indipendente. Il nome si evince dalle iniziali del motto «Tutti Uniti Per l’Italia Nostra». Il loro passaggio, nelle province di Ferrara e Novara lasciò una striscia di sangue. Le loro vicende si accompagnano a quelle di E. Vezzalini, fanatico squadrista che terrorizzò Ferrara.
“Śghét”, Màdar Curàģ a Bundéƞ.
Fràra, l’è una dill primi giurnàd ad Primavéra. A dezìd ad far ‘na spatzàda in biga da córsa, al pasatémp ché l’am dà la pusibilità ad zirundlàr int la campàgna Padana pàra, dintóran àla Zità. Al parcórs ch’am piàś ad più, quaśi part destinazióƞ naturàl, l’è iƞ direzión dì pòst iƞdóv a j’ò pasà lùƞgh, speƞsierà, perìod dlà mié iƞfàƞzia: Bundéƞ. I so canàj, i fiùm Po e l’afluént Panàr; e tut quél ach m’arcòrda ill pascàd, i źógh, ill nudà, ill prìmi bartiƞ d’amór…
La fastidióśa fumàna, ché l’àn s’à maj mulà par dill stmàn la s’è sfàta finalmént; al sól, gnù fóra cmè da ‘na bùśa scùra, l’à vért ‘na sfésa dall ziél ché piàƞ piàniƞ la sa slàrga spargugnànd luś, cl’è cmè ‘na imàgin ad fantàsma, cmè uƞ duminànt mesàģ ad vìta!
Dì cuór i sciòpa àla mié vista, int la campàgna, ché a tàj piaƞ pianiƞ col sileƞziós mèz ad traspòrt: tìnt ach m’imbarbàja di àrbul da frùta e al vérd dì prà, macià dàla magìa ad purasà fiur naturàj, int al diśégn ché “Madar Natura” l’à creà int una diśurdnà fórma d’architetùra; iƞ aparéƞza gnùda dal càś, còƞ la so’ perfezióƞ!
A ciàp al viàz, vèrs la Giamantìna o Ravàl, su stràd póch traficàdi. La vècia statal Virgiliana l’è, purtròp vaƞzàda tàl e quàla par deziƞ d’ann, stréta e intrigàda, còl tràfich dal dì diƞquó ciaparla iƞ bicicléta, par quaś ad vlér sfidàr la mòrt!
Rivà a Bundéƞ, a m’è gnù iƞ tèsta n’idea, la vója ad védar iƞcóra uƞ zert pòst iƞdóv a j’érta nàta ‘na storia. A zìr vèrs l’àrzan dal Panàr; a vrér védar iƞcóra s’al gh’è ‘na cà… custruida déƞtar dlà guléna dal fium. A gh’ò cmè uƞ sciupóƞ al cuór, la gh’è iƞcóra, mèza sfàta, mó l’è là!
L’as tróa a póch mètar dal lèt dal fiùm, squaś dal tùt quaciàda da: arvéd, piant rampicànt, arbàz, fin da far sparìr quél ché a resta dlà custruzióƞ dnà vòlta, mò i mur j’è vaƞzà iƞtiér.
A sóƞ stràch, l’è al prim dì ché a vàgh fóra dop l’Iƞvèran; apòģ la biga a uƞ fiòp e am sént, a soƞ sóra peƞsiér, a m’arcòrd d’Agrìpa, (nóm póch famnìl, magaridio nat dàla faƞtaśia anarchica dal popà!)
Ché las ciamàs acsì, póchi i al savéva, a dir la vrità tuti lì da tóran i la ciamàva “Śghét” ( ché in italiàƞ l’è al nom dal rondone,) o “Śghitìna”, forsi parché l’éra purasà svèlta, squaś nervóśa, uƞ puctiniƞ strampalàda parfiƞ, ad móvras e anch par la so’ magréza: la fàza smilza e i vastì clàs mitéva: sémpar stabilmént négar!
Am śdràj sl’èrba tévda dal sól, a scumìƞzi a vulàr col paƞsiér ad vèrs a uƞ dopmezdì d’avtùn dal “quarantatrì”; quand, par caś, a j’ò saƞtì viulént uchié, zigàd, chì gnéva fóra urénd da l’unica fnèstra ach gh’éra dré cà, ( alóra naturalmént, abitàda,) ché adès da chì mur scalcagnà a son cmè atirà. L’éra Śghitìna, incunfundibila…lié!
Am truàva santà iƞ riva al fiùm, armà d’uƞ pàr ad ròz càn da pésca. A j’éra dré pruàr a ciapàr soquànt pés gàt; préda fàzil da purtàr a riva, parché al fium brìśa iƞquinà ad chì témp, l’éra piƞ cucunà ad pès ad clà spézie, e anch ad tanti altri qualità e grandéz!
La curiośità, mista aƞ so’ brìśa a ché ad fifa l’am m’à fàt far uƞ scarabuzlóƞ. Piantà là ill càn da pésca, am sóƞ alvà coƞ prudéƞza, avśinàndam piàƞ pianiƞ lóng al santiér, am sóƞ afazà àla fnèstra dlà cà diƞdóv a gnéva chì treménd uchié.
Ill parsiàƞ mèz saràd im faśéva védar quél ach suszdéva déƞtar séƞza èsar vìst. Stand daténti dn’èsar brìśa squacià, tarmànd da l’emozióƞ e la fìfa, a j’ò zarcà ad butàr l’oç par capìr quél ach capitàva ad tànt impurtànt. Dòƞcana, gl’iƞviśióƞ e ill sunàd ché al mié zarvèl l’à mis iƞsiém int i minùt chè pasà, j’è rastà par tùta la mié vìta ad déntar ad mì, int al cantóƞ di arcòrd ch’an s’à dśméndga più!
Int l’unich camaróƞ, ché iƞ bòna sustraƞza l’éra la part intiéra dlà pàrt bàsa dlà cà, a gh’éra quatar parsóƞ: Agrìpa, dù parsunàģ dàla fàza faróza, ché im paréva źigànt vastì d négar e armà ad mitràglia e L. un rubàz ché as dgéva al fùs ‘na spia; al segnaladór ad diśertór, o par la preciśióƞ ad suldà sbaƞdà, dòp “l’òt ad setémbar”; scapa vèrs cà in ch’al nebióś e póch glurióś period stòrich pr’al nòstare Paéś.
“Śghét”, còj pùgn sarà slà tàula, la fisàva int j’òç L. e l’an zigàva più. La śvarslàva iƞ dialèt:
– Bruta bèstia ché t’an j’è altar, ciàpa al mié sàƞgh, mó làsam mié fiól. T’an t’arcòrd ad Tristano, mié marì, mòrt int la Guèra Grànda? E la mdàja ché a m’ì dà? I mié fiól grànd, Orèste, mòrt iƞ Rùsia ché uƞ méś fa a m’è rivà al telegràma, tal j’ét dśmandgà? Aƞ sìv brìśa stùf dal mié sàƞgh? In vót dl’àltar brùt spióƞ, e uàltar? Tupìƞ* dlà malóra,aƞ gh’ìv brìśa dì fradié? Aƞ gh’iv brìśa uƞ pàdar o una màdar?-
Adès la ciacarava squaś a bàsa vóś; al li guardàva stricànd j’òç ardùt cmè sfés. L’an uclàvca più, la sibilàva la so’ ràbia e al so’ dulór. L’à scumiƞziàva a vśinàras piaƞ pianiƞ. A uƞ a uƞ la guardàva, ch’ì om, mravià e séƞza paròl, surpréś da tànt curàģ, is faśéva iƞdré lentamént.
L’à scumiƞzià a piciàr còj so’ pìcul pugn L., fisàndal in j’òç dal bàs vèrs l’alt. L’agh mulàva uféś péśi, sémpar in dialèt, ma po’, l’espresióƞ la s’è cmè adulzìda ad surpréśa, cmè rasgnàda, capénd al prèzi ch’l’avrév pagà con clà so ribelióƞ. L’as randéva cónt ché al fiòl lugà lasù int al fnìl, al sarév stà ciapà e deportà chisà iƞdóv, la savéva aƞch ché aƞca lié la risciàva quèl ad gràv, mò l’an gh’éva brìśa paura; l’as santìva cmè ciapà da ‘na freneśia, dlà ràbia dlà raśóƞ, ché la stà da dré dal critèri e la fa dśandgàr ogni forma ad prudéƞza!
L., palid cmè uƞ laƞzòl al tarmàva ad mravié e ad nervóś forsi, par n’èsar brìśa iƞ gràd ad viƞzar la reśisteƞza ad cla spèzia d’uśliƞ! Al taśéva, squaś ciapà int l’anim, squàś imbarbajà! Intànt, spustandas ad fiàƞch piàn pianiƞ, la dòna, l’à cuƞtinuà ill litanié con ch’i altar om armà. La s’éra fàta più calma e dólza adès, rasgnàda, la zarcàva d’ arcurdàr ill so’ màdar, i fradié, ill famié; nisùƞ aucàt difeƞsór l’avrév gestì n’arìƞga iƞ mòd acsì misurà, sémpar più fùrab, pur parfìƞ inframèz a zèrt ciacaràd uƞ póch péś…sconfurtà!
Po’, ad l’impruìś, intànt ché la tragica logica di quèj la faśéva paƞsàr ad tarìbili conseguéƞz par tànta iƞcusciéƞza, a gh’ò avù, l’imprevista, surpréśa ad farmin da càś ché ch’j’òman, scambiàndas uƞ ségn, dop avér spipulà sotvóś, j’è partì saltand su al’auto Balìla ach gh’éra là fóra, alvànd uƞ gràƞ spulvràz par l’impruvìśa, nervóśa aceleràda dal mutór e conseguenta partéƞza.
-J’è aƞdà vié!- Otèlo, j’è aƞdà!- L’à uclà la dòna, butàndas santàda davśìƞ ala tàula e śluƞgànd i bràz cmè a vléral abrazàr. Po’, l’a scumiƞziàù a zigàr int uƞ mòd póch naturàl, liberatori, squàś da bèstia. Otèlo l’éra sàlv, almén pr’adès…po’ chisà! Pasà póch śgónd, a s’è vèrt uƞ purtóƞ ch’al dava al fnìl e al ragazòl, sudà e dàla fàza ròsa impizà pr’al parìcul péna scampà, al s’è butà brazacòl a ch’al pìcul èsar négar, zigànd e uclandagh al so’ amór e ritgnuséƞza!
Int la mié vìta a j’ò tgnusù tant mòd e tanti scén, dramàtich e cumuvénti, in tànt film o cmèdi ad teàtar, mò…ch’abràz uclà e straziant!
J’oman iƞ négar, gnù da fóra, j’éra tgnusù iƞ paéś e tàl j’è vaƞzà; fazil chì fùs d’ì povr’ ignurànt, brìśa iƞ gràd ad capìr al mal ché i faśéva, cuƞvìnt chisà cóm e con quaj maschiƞ sistém d’indutrinamént! L., scapà a l’èster coƞ la famié, l’à fàt perdar ill so’ tràç, vèrs uƞ oblìo ché nisùƞ vòl più ripurtàr àla memòria!
A gh’ò j’òç sarà intànt ché a péƞs a clà stòria, quand ché cmè dal niént a sént cmè uƞ sgnicamént ché a par ch’al viéna dala strada s’l’arzan. Al quèl al m’iƞcuriusìs, am aparìs Doƞ Gino, al spedàla vèrs ad mì slà so’ spicìula Biaƞchi da dòna, clà manda ‘na rùza póch normàl. L’as férma, l’è vastì con chìll vèç
staƞlùƞ che nisùƞ prèt ans mét più.
La stòfa l’è luśénta iƞ più part a cauśa ad chisà quànt pasàģ còl fért da stìr. Al guàrd mravià, al n’è po’ gnàƞch cambià dòp tànt ann; però agh fàgh ad càś ch’al gh’à cmè n’aspresióƞ fra la surpréśa e la paƞsiaróśa: strana purasà curióśa! La fàza ch’l’éra sémpar culurìda l’è pàlida póch naturàl;
-Cìcio, iƞcóra a paƞsàr a clà stòria?- Am mravìli ché l’am ciàma iƞcóra coƞ ch’al scutmàj ché nisuƞ uśa da tànt ann!
-Sa vliv reverendo, sa fùs iƞcóra credént am piaśrév ad dir ‘na qualch praghiéra àla “Śghitina”-
Doƞ Gino l’am guàrda e int la so’ fàza la ciàpa cmè uƞ suriśìƞ, cumpàgn a quèl ch’là rèś famóś la Gioconda ad Leonardo; espresióƞ intraduzibila: al fa uƞ suspiróƞ po’ al spipula:
-Tlà zà fàt!- L’è fazil clà sìa ‘na teoria religióśa póch original, però int st’al caś a gh’ò cmè n’impresióƞ ché la faga al càś mié! Dòp póch śgónd, am ciàpa cmè uƞ són impruiś, “a dév” saràr j’òç e a cròl iƞdurmaƞzà!
Am smìsia uƞ bajàr ad càn. A gh’è uƞ vèç davśiƞ a l’animàl, al tgnós l’è Ultimo, cmè scutmaj ciamà “Plinto”, a m’aliév, a ciàp la biga e al salùt, al m’à tgnusù, A ciacaréƞ dal più e dal méƞ, po’ a gh’admànd:
– At vìst pasàr Doƞ Gino? Iƞcóra clà bici e cla vècia vèsta, ach prêt!-
-Doƞ Gino? Mò ‘sa gh’àt int la buràcia, dlà gràpa? Quél ’è mòrt da uƞ bel tòch; bév póch sé t’àƞ supòrt brìśa l’alcol! E al s’iƞ và śghignazànd, pr’ill so batùd, col cagnìƞ al seguit.
A cuminç a spiƞzar suoi pedaj dlà bicicléta, uƞ póch iƞbarbajà, a sént uƞ sgrìśul int la vìta, mò a sént ché al n’è brìśa cólpa dal fréd…no! Òja sugnà dóƞcana? Fàzil ad sì, mó cum l’éra vér al Dóƞ…ché pcà ch’al fùs n’iƞsóni! Prima ad lasàr la guléna dal fium, a bùt l’òç vèrs ch’al mùç ad préd ché ‘na vòlta j’éra ‘na cà…Vóla picula curagióśa “Sghét”, vóla int la mié memoria, dsmandgàrat? Mai!
Fiƞ
* I «TUPIN» erano una compagnia inquadrata nella Guardia Nazionale Repubblicana, ma indipendente. Il nome si evince dalle iniziali del motto «Tutti Uniti Per l’Italia Nostra». Il loro passaggio nelle province di Ferrara e Novara lasciarono una striscia di sangue. Le loro vicende si accompagnano a quelle di E. Vezzalini, fanatico squadrista che terrorizzò Ferrara.