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16 Febbraio 2015

Il Maurizio Costanzo Show

di Gianni Fantoni | 4 min

C’è stato un tempo in cui la televisione davvero era vista da tutti. C’erano meno canali e non c’era internet e alcune – pochissime – trasmissioni erano il tempio dei comici. Il potentissimo Maurizio Costanzo Show era una di queste. Prima di andare a dormire si finiva sempre con una sbirciatina al più noto talk show televisivo, lo facevamo tutti. La varia umanità che componeva il mix degli ospiti era una forte calamita e poche volte, dopo un’iniziale occhiatina, si riusciva a spegnere la tv in orari decenti.

Tra questi personaggi c’era sempre un comico, e il palco del Teatro Parioli da cui andava in onda ha costituito il trampolino di lancio di molti che poi sono rimasti nel firmamento della notorietà televisiva: Enzo Iacchetti, Giobbe Covatta, Alessandro Bergonzoni, David Riondino, Platinette, Vittorio Sgarbi, Ricky Memphis, Valerio Mastandrea, e tanti altri. Andare bene in una puntata del Maurizio Costanzo Show poteva fruttare una carriera, andare male verosimilmente te l’avrebbe anche potuta stroncare.

È con questa bella dose di consapevole preoccupazione che ai primi di aprile del 1991 vengo invitato ad una puntata. Una specie di martellata sul dito: lì per lì quasi non ti rendi conto della botta, salvo poi risentirne gli effetti in differita. Ospitato in un grande albergo romano, “tutto pagato”, arrivo a Roma con un vestito più casuale che “casual” e la biancheria di ricambio ficcata in una valigetta da tennis bianca a forma di gianduiotto con sopra scritto “Valsport”. Da lontano, ma anche da vicino, sembravo un profugo di un’oscura civiltà dell’est europeo.

Vengo convocato nel pomeriggio al teatro Parioli prima di tutti gli altri, per parlare con l’autore Alberto Silvestri (papà del cantante Daniele) deus ex machina del Costanzo Show e, tra l’altro, del neonato Amici inizialmente condotto da Lella Costa e solo in seguito da Maria de Filippi. Tra le varie possibilità di performance che prospettai s’illuminò quando dissi: «L’imitazione degli oggetti.» Avevo trovato uno più pazzo di me. O magari, semplicemente, pensavano che sarei stato un altro di quegli “originali” che colorivano certe puntate, buttandola sul comico involontario.

Dopo il briefing con lui, mi ricevette Costanzo nel suo camerino, guardato a vista già allora da Maria de Filippi e da un grande cane lupo: non sapevo da chi essere più intimorito. Mi disse di stare tranquillo per la puntata, aggiungendo: «Meglio una cosa detta in meno che una detta in più.» Questo sarebbe stato da tatuarselo. Arrivarono gli altri ospiti, e con loro s’aprì il buffet. Ero emozionatissimo: non avevo mai visto così tanta roba buona da mangiare, dolce e salata, gratis e senza fare la fila! Partì il programma, Costanzo mi chiamò, ed entrai sulle note a me dedicate dal pianoforte del maestro Bracardi. Mi sedetti e le gambe si mummificarono all’istante: rigor mortis da vivo! Dopo circa 20 minuti il conduttore, mentre si parlava di infanzia, mi si avvicinò sornione. Era giunto il mio momento!

Mi chiese come fosse stata la mia, di infanzia. Piccola infinitesima pausa che sembrò un’eternità. D’istinto, semplicemente allargai le braccia come a dire “cosa vuole che le dica”, guardandomi addosso. Il pubblico rise. Il sangue ritornò in circolo, lo sentivo caldo che raggiungeva tutte le zone morte. Dopo qualche minuto, leggendo una microlista che gli avevo consegnato, Costanzo mi chiamò l’imitazione del “pomodoro classico”, del “pomodoro a fiaschetto”, della “lavatrice” e così via. Andò bene, molto bene.

Alla fine della puntata, che filò via velocissima, c’era da fare la passerella. Quando mi alzai per farla mi accorsi che i piedi si erano completamente addormentati. Mi sembrava di percorrere il proscenio su estremità gommose appartenenti ad un altro essere umano. La gente vide che il mio volto era strano; probabilmente pensò che fossi emozionato, in realtà la mia faccia tradiva semplicemente un dolore indicibile.

Qualche giorno dopo, girando per la mia Ferrara, mentre passeggiavo incrociai un tizio che sorridendomi mi disse: «Bagigione!» («Allocco!», in dialetto ferrarese) e poco più in là un altro sconosciuto mi si avvicinò dicendo: «Cum andegna coi pundòr?!?! Eh eh eh!!» («Come andiamo coi pomodori?!?! Eh eh eh!!»)

Capii che qualcosa era successo. Per sempre. Anche se bene-bene cosa non l’ho ancora capito adesso!

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