Esco di casa.
Dopo l’abbondante pioggia di ieri la strada è lucida e tutto, intorno, sembra ancora grondare acqua.
Oggi sono ancora più pignolo del solito nei controlli che precedono la partenza: io e Luca abbiamo in programma un “lungo”, ossia un allenamento su una distanza più impegnativa del solito, e il lieve fastidio di una calza indossata male o di un pantaloncino che fa una piega dove non dovrebbe se protratto per una trentina di chilometri può trasformarsi in un serio problema.
Ci incontriamo, come sempre, all’alberone, e ci abbracciamo senza smettere di correre (un’arte che si mette a punto solo dopo anni di esperienza).
Siamo quasi emozionati all’idea di condividere questa fatica, anche perché oggi abbiamo pensato di coniugare il piacere della corsa a quello della tavola.
Mentre ci avviamo verso la Prospettiva chiedo a Luca se è tutto pronto.
“Certo” fa lui “ieri sera ho dato a Riki la borsa con i cambi; lui ci aspetta a Burana a casa dei suoi. Ci facciamo la doccia lì e poi andiamo a Bondeno a mangiare da Tassi”.
“Quindi faremo la Ciclabile del Burana” dico io.
“Sì, è bella lunga e non ci sono macchine”.
“Perfetto, vada per la Burana”.
Giunti quindi al termine del tratto che costeggia Viale Belvedere giriamo a destra e imbocchiamo via Modena; sottopassaggio del Nord – Ovest, Ipercoop, ponte pedonale sul Boicelli, e ancora un paio di chilometri prima di imboccare il viottolo a destra che, dopo un altro tratto di strada, porta finalmente all’inizio della ciclabile vera e propria.
Alla nostra destra il canale, placido e limaccioso; alla nostra sinistra campi gonfi d’acqua e oltre i campi ancora via Modena, finalmente lontana e silenziosa.
Procediamo con un passo che cerchiamo di rendere il più regolare possibile; abbiamo già più o meno 8 chilometri sulle gambe, ma la meta è ancora lontanissima.
“Non sono mai stato a mangiare da Tassi” faccio io “è davvero così speciale?”
“Di più. Passatelli, salamina, cappellacci, lingua di cinghiale salmistrata, tagliatelle con salsiccia e fagioli, pasticcio estense, il leggendario carrello di bolliti, e poi…”
“Buon Dio! C’è dell’altro?”
“Molto altro, ma non farmici pensare adesso; solo a elencarti tutta quella roba mi è venuta una fame…”.
Mi accorgo che, mentre parlavamo di cibo, abbiamo inconsapevolmente accelerato; e sorrido perché, per associazione, mi è venuta in mente una situazione professionale che mi è capitata molti anni fa, quando facevo le prime guardie psichiatriche in Ospedale a Biella.
“Che c’è da ridere?” mi domanda il mio compagno.
“E’ una storia un po’ lunga, che c’entra con la fame”.
“Allora raccontamela: di chilometri ne abbiamo ancora parecchi”.
Così comincio a raccontare:
“Il telefono suonò nel preciso momento in cui stavo per portare alla bocca la prima forchettata della fantastica pasta al forno che mi aveva premurosamente preparato Mascia per il mio pasto in reparto.
Per una frazione di secondo mi arrestai, indeciso sul da farsi: rispondere o mangiare? Quindi di malavoglia, tenendo a freno le ghiandole salivari, posai la forchetta e risposi.
“Ciao Paolo, come stai? La Susy stasera ha portato una torta, ti va una fetta?”.
Conoscevo bene Sergio; era talmente bravo ad indorare le pillole che pensavo che se un giorno mi avessero dovuto diagnosticare un carcinoma avrei voluto fosse lui a darmi la notizia.
Quella volta però mi colse in un momento di debolezza, per cui abboccai.
“Certo! Vengo subito”.
Appena giunto in Pronto Soccorso lo vidi venirmi incontro sorridente lungo il corridoio; mi prese a braccetto e mi sussurrò:
“Ci sarebbe anche una consulenzina da fare… Ma è roba da poco, tu sei bravo e te la cavi in pochi minuti”.
La mia delusione e quella del mio stomaco mi fecero bloccare su due piedi, e mi uscì un lamentoso:
“E la torta?”.
“Non preoccuparti, te ne tengo una fetta. E’ che abbiamo qui la Clotilde”.
Stavolta non mi feci ingannare: Sergio parlava sempre così dei pazienti che mi sottoponeva, come di suoi vecchi amici che si trovano in un particolare momento di difficoltà, anche se non li aveva mai visti prima.
“E che cosa ha la Clotilde?” domandai io, senza riuscire a dissimulare il mio scarso entusiasmo per questo incarico che si frapponeva fra me e la soddisfazione della mia pulsione orale.
“La Clotilde” rispose lui mentre, continuando a portarmi a braccetto per il corridoio, mi faceva cenno col mento a una signora seminuda che litigava col lenzuolo su una barella dello studio 3 “si è prodotta con una lametta dei graffi ai polsi. Poca roba, non le ho neanche dovuto dare dei punti. L’ho medicata, le ho parlato, ma perché lo ha fatto a me non me lo vuole dire. Vuole parlare con uno psichiatra”.
“Ed è sempre così discinta?” chiesi io.
“Non lo so. Sta a te scoprirlo…” e sorridendo sornionamente si allontanò in direzione del cucinotto.
Riavendomi della malinconia che mi prese contemplando la schiena del mio collega diretto verso la torta mi riportai al 3 e feci il mio ingresso.
La Clotilde era una bella donna di 44 anni, dal volto regolare e dalle forme appena meno che abbondanti di chi di certo non disprezza il cibo.
Le era stata posizionata una fleboclisi alla piega del gomito sinistro (una “liscia” ossia pura e semplice soluzione fisiologica) ed era questa la ragione ufficiale della sua irrequietezza. Il cavo della flebo passava sempre o troppo sotto o troppo sopra il braccio, o le dava fastidio dietro la testa o le faceva il solletico al naso; fatto sta che andava continuamente risistemato, e per fare ciò era inevitabile, o almeno così sembrava, gettare il lenzuolo color verde-ospedale fino alle ginocchia e scoprire un minuscolo completino leopardato che faceva quel che poteva per contenere un seno decisamente abbondante.
Ostentatamente sorpresa dalla mia presenza, si fermò nel mezzo della suddetta operazione, mi squadrò da capo a piedi e chiese: “E’ lei lo psichiatra?”
Non feci in tempo a terminare la mia breve presentazione che esplose in un pianto improvviso, con un ululato che se non ci fossimo trovati in quella situazione sarebbe potuto suonare quasi buffo, quasi infantile:
“Buuu…!!! Mi aiutiii…!!!” e il povero lenzuolo, improvvisamente degradato a fazzoletto, fu investito a livello del suo margine superiore da lacrime e moccio.
Lasci passare un minuto, assistendo in silenzio al suo dolore, o alla sua esibizione di esso.
Fino a quando si calmò, si tamponò accuratamente gli occhi cercando di non disfarsi il mascara, e si concentrò ancora sul problema del cavo della flebo; ributtò il lenzuolo alle ginocchia, mostrandosi a mio esclusivo beneficio; quindi armeggiò a destra e a manca, riportò il lenzuolo al mento e si sistemò per benino sulla barella come se stesse per essere sottoposta ad un intervento chirurgico.
Terminato tutto il cerimoniale mi scrutò di sottecchi, come per valutare che effetto avesse sortito su di me lo spettacolo, e proclamò: “Dica pure”.
Io ero sempre lì impalato di fianco alla barella; cercando di superare lo sconcerto le chiesi di raccontarmi cosa fosse accaduto.
“Ma come cosa è accaduto? Ma nessuno mi capisce?” urlò lei mulinando le braccia incerottate; ma nel fare ciò smosse il cavo della flebo, compromettendo l’equilibrio così faticosamente conquistato. Nuova buttata del lenzuolo, nuova esposizione di lingerie, nuovo sguardo complice.
Era evidente che dovevo almeno in parte entrare nel gioco:
“Voglio dire, come è potuto accadere che una bella signora come lei sia stata costretta a farsi questo?”.
Un secondo di compiacimento per assaporare il complimento e poi rispose:
“Ecco, infatti, è tutta colpa di Ciro”.
Ciro, avrei scoperto di lì a poco, era l’uomo più bello e stronzo del pianeta.
Cubista, ragazza immagine, cameriera, barista, shampista e infine parrucchiera, la Cloty (così ero invitato a chiamarla, e così lei stessa si chiamava, raccontando la propria vita in terza persona) aveva avuto molti uomini, o meglio molte storie d’amore, come disse lei. Due matrimoni, due separazioni, figli che non volevano venire. Ma su tutto giganteggiava l’immagine di Ciro, chitarrista flamenco conosciuto durante una indimenticabile vacanza a Ibiza all’età di 17 anni.
Re del tira e molla, Ciro era l’autore dell’ennesimo SMS di abbandono pervenuto alle 20.31 di quella sera ed era quindi in ultima analisi il responsabile dell’agito autolesivo della paziente e del prolungarsi del digiuno del dott. Simonato.
“Immagino come possa esserci rimasta” buttai lì quasi soprappensiero, in una sorta di automatismo professionale.
“Ah sì?” mi rispose la Clotilde con aria di sfida “e come ci sono rimasta?”.
Mi ero proprio cacciato in un bel guaio. Con quelle premesse era sicuro che qualsiasi cosa avessi risposto avrebbe urtato la sua suscettibilità.
“Ci è rimasta… “azzardai “…ci è rimasta come un bambino a cui rubano una fetta di torta”.
Si arrestò un attimo, come incerta sul da farsi.
“In effetti potrei, invece che le foto…”.
“Che foto?”.
“La Cloty” rispose ributtando il lenzuolo alle ginocchia, e aggiungendo alla consueta rappresentazione una compiaciuta aggiustatina al bordo di pizzo del reggiseno “per far capire a Ciro come stava male, aveva pensato di mandargli le foto che si è fatta ai polsi dopo essersi tagliata. Perché non mi deve più trattare così” concluse annuendo con fare compiaciuto e bambinesco.
In effetti, se il fine della operazione era quello di sollecitare l’empatia di Ciro, non mi sembrava un’idea brillante.
Non lo dissi, ma qualcosa lasciai comunque trasparire, perché la Clotilde si fermò per un attimo e mi guardò:
“Non le pare?”
“Non conosco Ciro…”
“…ma…?”
“…ma posso dirle che di solito questi gesti causano rabbia, fastidio, frustrazione nelle persone a cui sono indirizzati; sentimenti che non hanno molto a che vedere con l’empatia o col desiderio di tornare assieme”.
“Appunto che invece che mandargli le foto quasi quasi gli scrivo un messaggino; gli scrivo: ‘mi hai fatta stare male come un bambino a cui hanno rubato una fetta di torta’; che ne dice?”
“Potrebbe essere meglio; provi a rilassarsi e ci pensi un po’”.
“Provo a rilassarmi e ci penso un po’” e con un bel sorriso si aggiustò il lenzuolo sotto il mento, soprassedendo sul resto dell’operazione, e mi salutò con l’aria di chi ti fa capire che preferisce non essere più disturbato.
Uscii dallo studio e mi venne subito incontro Sergio:
“Allora che mi dici della Clotilde? Le mettiamo qualcosa nella flebo?”
“Quella puoi toglierla, non ce n’è bisogno”.
“Ma allora non la ricoveri? Non c’è rischio suicidario? Che facciamo?”.
“Niente” risposi “Al limite, se avanza una fetta della torta della Susy, portatela a lei. Penso le farebbe piacere. Ma vieni che ti racconto” dissi prendendolo a braccetto e accompagnandolo verso il cucinotto”.
Luca ascolta per tutto il tempo con attenzione, come nel suo stile.
“Bella storia, ti ringrazio. Ma se dovessi riassumerla in poche parole cosa diresti?”.
“Direi che possiamo avere tutti delle difficoltà nel gestire le nostre pulsioni, i nostri sentimenti. A volte facciamo delle cose che ci sembrano utili ma invece ci allontanano dal nostro obiettivo”.
“Come noi adesso, che a causa della fame e al pensiero di Tassi, abbiamo accelerato il passo…”
“Te ne sei accorto anche tu?” domando; “Se continuiamo così ci spomperemo rapidamente e ci troveremo esausti, a metà strada tra Ferrara e Burana, in mezzo alla campagna, e non abbiamo neanche un telefonino!”
Rallentiamo leggermente, ritrovando il respiro, la cadenza di prima.
Abbiamo ancora molta strada da fare, una fatica, un traguardo, un premio.
Questo racconto è frutto della fantasia dell’autore; ogni riferimento a persone realmente esistite è del tutto casuale.