Il Presidente Mattarella: “È inaccettabile il rifiuto di applicare le norme del diritto umanitario nei confronti dei cittadini di Gaza”
"Si impone, subito, il cessate il fuoco. I Palestinesi hanno diritto al loro focolare entro confini certi".
"Si impone, subito, il cessate il fuoco. I Palestinesi hanno diritto al loro focolare entro confini certi".
Ma che dire di Gaza? Non un solo uomo giusto a Sodoma, nemmeno uno
"Mi occupo di ricerca sull'Olocausto da 40 anni: non avrei mai immaginato che lo Stato ebraico avrebbe bombardato a morte bambini affamati"
Disarmare la Terra oggi è un imperativo morale: ripetere queste parole di Papa Francesco è un reato?
La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto
Ripubblico qui le pagine dedicate alla filosofia di Giacomo Leopardi – a dispetto delle cronologie, il più contemporaneo e inattuale dei nostri filosofi – tratte dal mio Filosofia. Corso di sopravvivenza (Ponte alle Grazie, 2011, pp. 240-251), all’interno del capitolo “Evasioni filosofiche”, nel quale quattro filosofi italiani (Machiavelli, Vico, Leopardi e Gramsci) sono accomunati dall’aver usato la filosofia per evadere (come Edmond Dantès) da una prigione, reale o metaforica, nella quale erano rinchiusi.
“Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d’ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz’altro pensiero” (Giacomo Leopardi, lettera al padre Monaldo, luglio 1819)
LEOPARDI COSTITUENTE
Voi non ci crederete, ma quando è stata scritta la Costituzione italiana Giacomo Leopardi c’era: era lì, in aula, durante i dibattiti, tra i banchi dei socialisti. Non sto scherzando. Tra i nostri costituenti c’era il partigiano Walter Binni, che cominciava allora a farsi strada nel campo della critica letteraria (sarebbe diventato uno dei massimi studiosi di Leopardi). Binni partiva il lunedì in piena notte, dall’Umbria, e dopo un cambio di mezzi aveva da attendere il treno per Roma per due ore, che trascorreva nel primo bar aperto. Cosa faceva al bar, mentre albeggiava? Lavorava: nella borsa, assieme alla pistola che portava per difesa personale, aveva le bozze dei libri da correggere. Uno di questi libri, terminato e corretto durante i lavori dell’Assemblea Costituente, è il suo primo studio importante su Leopardi.
Era importante raccontarvelo: perché per molto tempo (e non giurerei che per qualcuno non sia ancora così) Leopardi ce l’hanno presentato come un poeta lagnosetto, tutto idilli e tristezze, una specie di litania d’altri tempi – Silvia chissà chissà se a Giacomo ci pensi ancora, Silvia lo sai che Giacomo è a casa che sta male male?
C’era un motivo per venderci Leopardi così: rinchiuderlo nella prigione di Recanati e lasciarlo lì, come le sue sudate carte (cioè lo Zibaldone) che la famiglia Leopardi avrebbe voluto tenere sotto chiave, e che possiamo leggere grazie all’azione politica del senatore del regno Giosuè Carducci, che le fece espropriare come bene pubblico.
Qual è la prigione dalla quale evade Giacomo Leopardi? Recanati, potremmo dire; ma una Recanati che, come una matrioska, nasconde un’altra prigione – casa Leopardi – ed è a sua volta rinchiusa dentro altre prigioni: l’Italia intera è un angusto paese, una prigione dello spirito prima ancora che degli sbirri dei principi e degli sgherri asburgici; ma lo stesso primo Ottocento, per chi non abbia gli occhi velati dalle illusioni romantiche, è una gigantesca galera dalla quale sembra impossibile evadere, come i continui fallimenti dei moti carbonari e mazziniani, e le conseguenti violentissime repressioni, testimoniano: «nel secol tetro e in questo aer nefando». Il conte Giacomo non è il Julien Sorel di Stendhal: il fantasma di Napoleone non basta a dare senso al mondo. Immaginiamocelo, per un momento, Leopardi, davanti alla famosa siepe di Recanati che come un muro gli chiude il mondo davanti agli occhi: guardiamolo rompere la crosta di questo mondo duro e compatto, sfondarlo col pensiero, e aprire la strada all’infinito, come la celebre poesia che tutti abbiamo studiato a scuola racconta. Ma cos’è questa siepe? A che pro sfondare il muro del mondo? E cos’è questo infinito?
I FRANCESI FILOSOFEGGIANO, GLI ITALIANI RIDONO
Facciamo un passo indietro e affrontiamo Leopardi dal punto di vista del metodo: come ci mostra un suo sorprendente scritto del 1824, il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani. In questo breve saggio troviamo una straordinaria capacità di analisi sociale (come se Leopardi avesse già letto non solo Marx, ma anche la riforma del rapporto tra struttura e sovrastruttura attuata da Gramsci), che fa di questo Discorso un testo imprescindibile per chiunque voglia occuparsi del carattere, della società, della cultura degli italiani: in un’espressione, dell’Ideologia italiana.
Il tema del Discorso è, in apparenza, la comparazione tra lo spirito francese e quello italiano. Ma già il punto di partenza è indicativo: come Erodoto non poteva non mostrarci tutti i popoli del Mediterraneo orientale prima di mettere a confronto greci e persiani e spiegare il perché delle loro guerre, così Leopardi non può non partire da un quadro generale del “secolo presente” e degli elementi che lo caratterizzano. Siamo in un tempo nuovo, nel quale la cultura dell’Illuminismo ha diminuito i localismi e ampliato la visione degli uomini, abituati anche dalla pratica del viaggio e dalla diffusione della stampa, che favorisce la circolazione delle idee, a confrontare usi e costumi. In una società così complessa, non bastano più le leggi e le punizioni a disciplinare gli uomini: un ruolo crescente assumono quindi i costumi, che creano l’abitudine e la forma mentale che permettono di mantenere unita la società. Diventa quindi importante conoscere la formazione della nuova società, nella quale gli uomini, unendosi, danno vita a quella che noi oggi chiamiamo “società civile”, e che Leopardi chiama “società stretta”, quasi a rimarcarne il ruolo di mediazione tra i diversi ceti sociali. Si tratta di una società formata da uomini che agiscono per soddisfare i propri bisogni attraverso le attività economiche: e quindi si abituano a ragionare non sul tempo immediato, ma sul lungo periodo, perché gli scambi economici e le attività commerciali richiedono tempi dilatati e programmazione. È , insomma, la descrizione del secolo della borghesia che si annuncia a tutto tondo. Ma l’Italia è, per l’appunto, il paese che è privo di questa società stretta: di conseguenza, è priva di quelle caratteristiche culturali e sociali – un teatro, una letteratura, un pubblico “italiani” – che dalla società civile dovrebbero formarsi. Dunque la società italiana è «così vaga, larga e indefinita che lascia quasi interamente in arbitrio di ciascuno il suo modo di procedere in ogni cosa». Di conseguenza, «ciascuna città italiana non solo, ma ciascuno italiano fa tuono e maniera da sé»: tuono e maniera, cioè comportamento e costume. Ecco quindi l’origine del particolarismo degli italiani. Il francese, preso come modello dell’uomo del tempo nuovo, accetta come oggettivi i valori generati dall’industriosità, cioè dal mondo (borghese) del lavoro, e assume in modo inconsapevole quei valori che si creano con la circolazione delle idee. In questo modo nella società stretta si crea l’illusione dei valori: la società industriosa crede che il mondo abbia un senso, e ritiene di conoscerlo. E poiché questo senso è una conquista della conversazione pubblica che avviene nei club e nei salotti, fa in modo che le idee che circolano in questi luoghi passino dalla dimensione astratta del pensiero a quella concreta della carta stampata, sedimentandosi in gazzette e libri. Al contrario, l’italiano pratica lo scherzo e la presa in giro: mentre il francese concettualizza, l’italiano deride. Perché gli italiani sono scettici? Perché la conversazione avviene, in Italia, non nei salotti borghesi, ma nelle pubbliche piazze, dove l’interlocutore cambia in continuazione, le parole restano sospese in aria, nulla si sedimenta e tutto resta aleatorio: da cui la mancanza di usi e costumi condivisi, di una letteratura nazionale, in altri termini di un senso condiviso. Il mondo per gli italiani è privo di senso comune, poiché ogni individuo ne ha uno proprio: in Italia c’è poca società, e poca vita nazionale.
Fermiamoci un attimo a questo livello di analisi materialistica. Le condizioni strutturali (arretratezza economica, frammentazione politica, assenza di una rivoluzione industriale) determinano una sovrastrutturale arretratezza dei costumi e della società; ma l’arretratezza sociale, a sua volta, incide sull’arretratezza della struttura sociale: la società stretta agisce al tempo stesso come conseguenza (= sovrastruttura) e come causa (= struttura), in modo circolare (oggi lo chiameremmo feedback). Vedete la modernità di Leopardi? Se volete impegnarvi (e dovreste) sulla crisi morale, politica, sociale che stiamo vivendo; sul modo in cui i traumi dell’età di transizione che stiamo vivendo in tutto il mondo si riverberano in Italia: be’, come non partire da queste categorie leopardiane? Leopardi ha costruito una potentissima macchina analitica, che consente di tenere insieme la condizione socio-economica generale e il comportamento individuale, di spiegare come ciascuno dei due determini l’altro, e cosa dell’uno bisogna cambiare perché cambi l’altro. Quante volte ci capita di sentire l’espressione: “le solite cose all’italiana”? Questa espressione può significare due cose: o il buon Dio aveva esaurito la materia prima, e noi italiani ci ha fatto con argilla di scarto – e allora rassegniamoci, così siamo e così rimarremo; o ci sono delle specifiche ragioni nella storia d’Italia che ci hanno fatti come siamo (ad esempio: preferiamo lamentarci piuttosto che rimboccarci le maniche), e se vogliamo cambiare il modo in cui siamo, dobbiamo agire sulle cause – e Leopardi ci insegna che possiamo. Vi faccio solo notare che il primo modo di pensare porta direttamente alla legittimazione dell’”uomo della provvidenza” che decide, per il nostro bene, al posto nostro.
Ma Leopardi non ha certo finito: perché, se finora ha lasciato emergere la superiorità della società stretta francese sulla vaga e sfilacciata società italiana, da un certo punto (non così evidente come ve lo sto schematizzando io: Leopardi ha un modo di argomentare in apparenza tortuoso, ma rigorosissimo, dove ogni ragionamento è fondato, quasi senza farcene accorgere, all’interno del precedente), emerge invece una inaspettata superiorità dell’italiano. Gli italiani, infatti, proprio in virtù del loro scetticismo sono filosofi per vocazione. La filosofia ha questo compito: demistificare i valori, svelare la falsità della loro pretesa oggettività ed eternità. E la conversazione degli italiani, con la sua feroce ironia, impedisce il formarsi di valori solidi, cioè di illusioni scambiate per verità. In altri termini, quello che gli uomini ritengono sia il “senso” del mondo è una creazione degli uomini, che gli uomini stessi credono essere “natura”: è una seconda natura (Marx direbbe ideologia), che con le sue illusioni ci inganna. È il “mondo vero” di cui scriverà Nietzsche. Resta che, nel tempo presente, i valori morali del passato sono distrutti, e con essi la capacità di mantenere coesa la società: inutile lamentarsi o ricordare che questi valori erano migliori dei nostri, se non si vede come e quando essi possano tornare. E dunque non restano che i costumi sociali, a condizione che la società sia «di alto grado», a poter provvisoriamente svolgere questo compito.
SE LEOPARDI A LONDRA, INCONTRANDO MARX…
In questa situazione, l’italiano e il francese hanno un punto di contatto: l’uso dell’immaginazione. L’italiano la usa per evadere dalla realtà, il francese per pianificare lo sviluppo di un’attività: per entrambi l’immaginazione non è soltanto uno strumento conoscitivo, ma è il mezzo con cui costruiamo il mondo. E non potremmo fare altrimenti: perché il mondo, cioè la natura, non è per noi. La natura non ha per scopo che se stessa, e noi, che pure siamo parte della natura, non siamo inscritti in alcun fine o provvidenza o disegno che dir si voglia. Ecco perché dobbiamo costruire il senso del mondo: perché il mondo, propriamente parlando, non ha senso. Cercate il senso delle cose, e cadrete vittima delle illusioni, della pretesa di oggettività di un senso che è stato prodotto dagli uomini, ma del quale gli uomini hanno dimenticato la genesi. Il mondo è “oggettivo” solo in un senso: è oggetto, cioè ob-jectum; è qualcosa che ci sta contro, come la siepe recanatese. E il senso che produce è intollerabile: perché il senso della vita è sofferenza. In altri termini, Leopardi condivide e non condivide quello che il giovane Marx pensa sulla natura. Se Leopardi non fosse morto a soli trentotto anni, avrebbe partecipato ai moti del ’48, e in ogni caso avrebbe condiviso la sorte di molti intellettuali (uno tra tutti, De Sanctis) sulla via dell’esilio. Possiamo pensarlo a Londra (c’è un romanzo, Il signor figlio di Zaccuri, che immagina Leopardi a Londra, dopo aver messo in scena la propria finta morte), e immaginare che possa incontrarsi con l’esule Marx. Ambedue condividono l’idea di una natura ostile, che ci fa da ostacolo; e che ciò che chiamiamo naturale è una seconda natura. Marx, però, cercherebbe di convincere Leopardi che la natura in sé è buona, e solo la condizione di alienazione ce la fa vedere come mostro; Leopardi replicherebbe che la natura è sempre stata per noi matrigna, e sempre così sarà. Chissà come sarebbe andata a finire, la discussione…
Perché la sofferenza? Perché la natura stessa è contraddittoria: o meglio, genera una “spaventevole contraddizione”. La natura è materia, e noi siamo materia: materia pensante, beninteso, perché «che la materia pensi è un fatto» che noi stessi sperimentiamo quando «sentiamo corporalmente il pensiero» come proveniente da quella parte materiale di noi che è il cervello. Lo scopo della natura è il piacere, e noi esseri umani, in quanto esseri naturali, cerchiamo il piacere. Ma questo scopo ci è negato dalla natura stessa, perché il suo fine non contempla la nostra felicità. Non possiamo uscire dalla natura, non possiamo essere felici a causa della natura. Come venirne a capo?
Permettetemi di prendere fiato, e di toccare alcuni punti importanti. È certo che non possiamo cercare nella natura quei valori che i sostenitori dei diritti o dei valori naturali affermano, perché in natura non ci sono. Né esiste altro al di fuori della natura: non c’è un Dio, né disponiamo di alcuno strumento per affermarne l’esistenza. Perché dico questo? Perché si incontrano alcuni sedicenti lettori di Leopardi che, dalla concatenazione immaginazione-infinito, deducono che Leopardi si sarebbe aperto verso la dimensione della trascendenza. Poi, certo, ha avuto il cattivo gusto di morire, ma se non fosse morto…
Non prendiamoci in giro: questo ragionamento non sta in piedi, sia dal punto di vista della verità di ragione che da quello della verità di fatto. L’infinito leopardiano non è una dimensione che si chiude su una verità finalmente svelata: è una continua rottura della crosta dura del mondo, che non ha alcun fine né alcuna conclusione, se non una lotta reiterata all’infinito (il tema della lotta contro la natura, raffigurato in modo magistrale nella Ginestra, non si conclude certo con un miracolo che fa cessare l’opera di sterminio del Vesuvio). Quanto all’ipotesi-Dio, Leopardi stesso se la pone come pura possibilità, per giungere alle stesse conclusioni di Bruno e Spinoza (che probabilmente non ha mai letto): Dio, se esistesse, sarebbe infinita potenza e infinita possibilità per essenza. In altri termini, se Leopardi non fosse ateo sarebbe panteista: se non credesse nella materia pensante, crederebbe nel Dio che è non solo spirito, ma anche materia. Un modo come un altro per finire all’Indice o sul rogo, e in ogni caso per attirarsi il disprezzo di quell’odioso reazionario che era il conte padre Monaldo: della famiglia Leopardi, Giacomo era la pecora bianca.
Resta, per tornare a Leopardi, che siamo costretti a usare la ragione contro la natura, e non per assecondarla. Di più: che siamo costretti anche a non poterci fondare sulla sola ragione, perché il mondo, cioè la natura, non è razionale (e Leopardi non crede nella ragione dialettica). Da qui l’importanza dell’immaginazione come facoltà che non solo rappresenta, ma costruisce nuove realtà. Da qui, di più, l’importanza del linguaggio in Leopardi. Leopardi usa in modo estremamente consapevole il linguaggio: per svelare nel concreto le illusioni – non potete salvarvi la vita aggrappandovi alla bellezza, perché è un’illusione; per criticare le illusioni parolaie dei giovani romantici; per far sorgere un senso di solidarietà tra gli uomini. In altri termini, il linguaggio leopardiano cerca di produrre effetti nel mondo: il filosofo Austin direbbe che ha una funzione performativa, perché determina il mutamento dello stato di cose esistente. E questo è un altro momento di grande attualità: noi oggi viviamo in un mondo innervato dalla comunicazione (basti pensare ai linguaggi della televisione e della pubblicità), nel quale con le parole si fanno moltissime cose concrete – molte più di quando si usava il linguaggio per ornare e abbellire i discorsi per renderli gradevoli. Ne abbiamo fin troppa, di comunicazione: e forse meno comunicazione e più creatività renderebbero il mondo migliore. L’attualità di Leopardi sta proprio in questo. La sua riflessione sul linguaggio, e l’uso stesso che ne fa, è all’altezza dei problemi che il linguaggio pone a tutti noi nella società globale. Come oggi, anche al tempo di Leopardi troviamo delle parole che, per il semplice fatto di essere ripetute più volte da persone autorevoli, finiscono per essere credute vere; parole che non denotano nulla di concreto, ma che gli uomini credono che significhino qualcosa di reale: le illusioni. La più potente illusione ottocentesca è nella parola “progresso”, che finisce col riassumere in sé la parola “storia”: la storia si muove seguendo un disegno progressivo, positivo per definizione, all’interno del quale ciò che accade ha valore positivo per il semplice fatto di accadere. Sono questioni su cui ritorneremo più avanti: qui è importante sottolineare che Leopardi al progresso non ci crede. Non credere nel progresso significa non credere nella storia come fonte della verità: Leopardi non è dunque un materialista storico, come ad esempio lo era Machiavelli (e anche Marx, sotto certi aspetti: il Marx meno interessante, peraltro). Ma non crede neanche nella scienza come luogo della verità: non è un materialista scientifico, come lo era Galilei (e in certo modo Marx).
Che genere di materialista è dunque Leopardi? Un materialista nichilista: Leopardi è il padre del nichilismo, e dunque della modernità.
Cos’è il nichilismo? Il pensiero del nulla, dice in senso stretto la parola. In modo più preciso: nichilismo significa credere che i valori sono fondati sul nulla, ossia non hanno un fondamento oggettivo. Non c’è un Dio (e se ci fosse non potremmo comunque fondare alcunché su di lui). C’è la natura, ma su di lei non possiamo fondare alcunché. La storia, in sé, non è qualcosa di concreto, e non fonda il nostro agire: la storia ci insegna che i valori del passato erano più saldi di quelli attuali, ma su questo non possiamo costruire nulla, perché non ci sono più le condizioni per il ritorno di quei valori. La scienza, infine, non produce alcunché su cui fondare il nostro agire: piuttosto (e qui Leopardi è davvero lungimirante: intuisce qualcosa che si diffonderà mezzo secolo dopo), la scienza, con i suoi successi, rischia anch’essa di favorire l’illusione della fede nel progresso. Ma che i valori, e l’agire umano, siano fondati sul nulla non vuol dire che sono nulla. Vuol dire che, non potendo ereditare dei valori incisi nella pietra da un qualche legislatore che li ha ricevuti da un Dio o dalla natura, dobbiamo farcene carico noi: dobbiamo fondarli, assumercene le responsabilità, e accettarne anche i rischi. Il nichilismo richiede una maggiore forza d’animo: e proprio Leopardi imposterà per primo la distinzione tra gli uomini forti d’animo, che accettano e si fanno carico della condizione umana, e gli stolti (Nietzsche li chiamerà deboli) che dietro la fede nelle illusioni covano un animo vile.
IL FILOSOFO PLOTINO E IL TOPO LECCAFONDI
La natura è sofferenza, ci eravamo detti. La vita stessa è sofferenza. L’unica alternativa al dolore sembra la noia, che ci coglie quando scopriamo la vanità di tutte le cose. Ci sono due alternative, al dolore: dal punto di vista individuale, soffocare il dolore con lo studio, con la conoscenza, con le “sudate carte”. Dal punto di vista sociale, prenderci per mano e affrontare il dolore insieme.
Ma, dirà qualcuno, perché combattere il dolore? Se la vita è sofferenza, perché non farla finita una volta per tutte? Perché non il suicidio? È il tema del Dialogo tra Plotino e Porfirio, nel quale, mettendo in scena i due filosofi dell’antichità, Leopardi rimbalza dall’uno all’altro in un continuo capovolgimento di posizioni. Se la vita è dolore, sostiene Porfirio, tanto vale la morte. Ma esistono, sostiene Plotino, piaceri parziali da contrapporre alla sofferenza: Plotino prefigura l’idea che Bene e Male non siano valori assoluti, ma che siano giudicabili come buoni o cattivi a seconda degli effetti, perché certi piaceri possono avere un buon fine. No, ribatte Porfirio al “relativista” Plotino: la vita è comunque sofferenza, e questo dato è certo. Ma la morte, replica Plotino spostando il discorso su un altro piano, è contraria alla natura, perché la vita è essa stessa naturale; non è così, replica nuovamente Porfirio, perché la natura è in primo luogo contraddittoria, e in secondo luogo perché la natura vuole comunque il meglio, e il meglio è togliersi la vita. Il dibattito si sposta allora su un piano ancora diverso: è utile, come sostiene Porfirio, o no, come argomenta Plotino? Anche qui Plotino non riesce a convincere Porfirio: il suicidio, dal punto di vista della ragion pura, non può essere escluso. Nondimeno, c’è un argomento pratico contro il suicidio, che Plotino afferma in conclusione non per convincere, ma per esortare: il suicidio causerebbe sofferenza ulteriore ai cari che ci amano, e che sarebbero privati della nostra presenza. La considerazione che gli altri hanno di noi è ciò che ci può consolare dalle sofferenze: per giungere a questa conclusione, dobbiamo allargare il nostro mondo dal nostro io individuale agli altri che ci circondano, e con i quali siamo in relazione. Uscire dal solipsismo, ed entrare nella dimensione dell’etica. Il linguaggio stesso segue questo percorso: dal ragionamento (linguaggio descrittivo) passa all’etica (linguaggio performativo). E questa è la via che la filosofia deve seguire: non temere di svelare la falsità delle illusioni, e di denunciare come unica realtà “l’arido vero”. Ma al tempo stesso, procedere in direzione dell’etica: le idee servono a immaginare un mondo diverso. Stiamo entrando nella dimensione della politica, che Leopardi ci narra in forma dapprima tragicomica, e poi in un grande affresco epico, ma senza eroi.
La tragicommedia è una sorta di falso d’autore: i Paralipomeni alla Batracomiomachia sono infatti presentati come un’aggiunta, o forse una parte tralasciata dall’autore (questo è il significato di “paralipomeni”) della Batracomiomachia, cioè della “guerra dei topi e delle rane” di Omero. Naturalmente non è vero: quello di comporre dei testi fingendoli frammenti dei classici sembra fosse una burla nella quale sia Giacomo, sia il padre Monaldo erano abili artefici. In questo poema pseudo-omerico si racconta che nell’immaginario paese di Topaia, i topi vivono sottomessi ai feroci granchi. Incontriamo qui, dopo Plotino e Porfirio, un nuovo alter ego di Leopardi: il conte Leccafondi, intellettuale topesco e ministro riformatore, che condivide molti tratti dello stesso Leopardi – salvo credere nel progresso, che per Leopardi è un’illusione. Leccafondi, dunque, è un modello politico: è istruito, è stato illuminista, e adesso è romantico; legge le gazzette e i romanzi storici.È pericoloso: per questo il baron Camminatorto, capo dei gendarmi, non lo perde di vista. Perché sa, il gendarme, che il pericolo per i granchi non viene dai topi parolai che si lasciano crescere i basettoni e cianciano di rivolte: come molti risorgimentali dell’epoca, le loro chiacchiere sono innocue. Il vero pericolo è che all’agitazione sconsiderata dei giovani topi si aggiunga il sapere, cioè il conte Leccafondi: che Leccafondi non diventi mai capo della congiura, questo è lo scopo dell’occhiuta polizia politica. E infatti, allo scoppio della rivolta, i giovani topi «al par del vento, al par del lampo» fuggono al primo tuonare delle armi, lasciando isolato l’eroico Rubatocchi – e qui davvero la lingua leopardiana è mirabile nel suscitare la commozione del lettore davanti alla morte dell’eroe che, «pugnando sol contro infiniti», cade infine come un topesco Leonida.
Una bella morte, certo: ma l’eroismo non redime il mondo, e non riscatta l’esistenza.
Per cambiare il mondo è necessario un eroismo senza eroi: quello degli uomini che, sotto l’ombra dello “sterminator Vesevo”, cioè del Vesuvio, devono trovare la forza di resistere che ha l’umile ginestra, il “fiore del deserto” cui è intitolata la poesia che conclude la vicenda umana e poetica di Leopardi. Sotto i colpi di una natura che non redime ed è eternamente matrigna, gli uomini si dividono in due schiere: gli stolti che ignorano il vero e vivono nelle illusioni, e gli uomini di nobil natura che non temono di ammettere la propria condizione. I primi li riconosci nel momento del pericolo, quando incolpano gli altri della propria condizione, e cercano la salvezza individuale a scapito del vicino; i secondi, nella capacità di stringersi in una social catena, e affrontare insieme le avversità. Tra questi uomini modesti ma nobili ci sono virtù non eroiche, ma civili: «il verace saper, l’onesto e il retto conversar cittadino, giustizia e pietade». Virtù fondate non sulle favole e le illusioni, ma sulla verità, che rende consapevoli del fatto che solo marciando insieme attraverso le tenebre si può immaginare l’oltre della siepe, e cercare, magari poco per volta, di raggiungerlo. Fate adesso retroagire la social catena della Ginestra sulla struttura della società del Discorso del 1824, e avrete un programma filosofico, politico e morale che Leopardi ci consegna.
Le sudate carte sono state il suo personale abate Faria che lo hanno proiettato oltre le siepi di Recanati, dell’Italia, dell’Ottocento. Adesso, nella galera della modernità ci siamo noi: siamo tutti Edmond Dantès, e Giacomo Leopardi è il nostro abate Faria. Sta a noi decidere dove vogliamo stare.
[Le immagini nel testo sono, dall’alto in basso: il primo giorno di scuola a Shujayea, Gaza (settembre 2014); lo scrittore David Foster Wallace; il filosofo Michel Foucault]
Da 20 anni Estense.com offre una informazione indipendente ai suoi lettori e non ha mai accettato fondi pubblici per non pesare nemmeno un centesimo sulle spalle della collettività. Il lavoro che svolgiamo ha un costo economico non indifferente e la pubblicità dei privati non sempre è sufficiente.
Per questo chiediamo a chi quotidianamente ci legge e, speriamo, ci apprezza di darci un piccolo contributo in base alle proprie possibilità. Anche un piccolo sostegno, moltiplicato per le decine di migliaia di ferraresi che ci leggono ogni giorno, può diventare fondamentale.
OPPURE se preferisci non usare PayPal ma un normale bonifico bancario (anche periodico) puoi intestarlo a:
Scoop Media Edit
IBAN: IT06D0538713004000000035119 (Banca BPER)
Causale: Donazione per Estense.com