L'inverno del nostro scontento
18 Giugno 2014

I derivati e la ricottina globale

di Girolamo De Michele | 10 min

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DexiaOgni volta che sulle cronache locali compare una notizia sull’ormai celeberrimo derivato Dexia, si riaccende una furibonda lite tra fazioni. Ma qualcosa sfugge, in questa tenzone dai toni spesso grotteschi: cos’è, di fatto, un titolo derivato? A cosa serve? Come funziona? Perché se non lo sappiamo, come possiamo sapere chi ha torto e chi ragione, nell’affaire Dexia?

Premessa tecnica: cos’è un derivato (definizione)

I derivati sono titoli il cui valore dipende (deriva) dall’andamento di un indicatore finanziario di riferimento (detto ‘sottostante’), quale il tasso d’interesse, le valute, gli indici di borsa, oppure le merci (oro, petrolio, soia, alluminio, cotone, succo d’arancia ecc.). A seconda di come sono costruiti sull’attività sottostante (tecnicamente la loro ‘struttura’), i derivati prendono nomi diversi: per esempio futures su indici di borsa, options su singole azioni, swap su tassi d’interesse o valute, e così via. 
Per quel che riguarda gli enti locali, il derivato per eccellenza è lo swap (letteralmente ‘scambio’) sui tassi d’interesse. Lo swap consente di sostituire il tasso d’interesse fisso, che le amministrazioni pagano su un certo capitale preso a prestito (bond, obbligazioni oppure mutui), con un tasso di interesse variabile, o viceversa [Giovanna Baer, E ci penseranno i superstiti. Enti locali e derivati finanziari, l’ombra del crack, in “paginauno” n. 23, 2011, http://www.rivistapaginauno.it/enti-locali-derivati-finanziari.php].

I maghi dei derivati

scarfaceSapreste moltiplicare i vostri soldi che non avete? No, vero? Gli spacciatori di derivati invece si. Usano quelli altrui: è qui la prima magia. La ricordate, la favola della ricottina? Ecco, gli spacciatori di derivati sono un po’ più scafati della contadinella. Lei andava al mercato con la sua ricottina, loro se ne fanno prestare una, e facendo ben attenzione a non inclinare la testa – non è gente che fa inchini, questa! – la vendono, e con il ricavato si fanno prestare altri soldi, con i quali comprano tanti agnellini che mettono in un recinto. E poi cominciano a vendere le ricottine. E qui sta la seconda magia: vendono le ricottine che faranno quando gli agnellini saranno cresciuti e faranno il latte. Le ricottine di domani: sono bravi tutti a vendere quelle di oggi… E così mettono i soldi che ricevono oggi dai compratori delle ricottine di domani in una cesta di vimini. E fanno la terza magia: dividono la cesta in tre cestini più piccoli. Quando il primo cestino si riempie, i soldi che si aggiungono passano nel secondo, e quando il secondo si riempie, quelli che arrivano entrano nel terzo. E poi vendono i cestini. Dentro ogni cestino ci sono i soldi di dopodomani guadagnati vendendo i formaggi di domani!
Quelli che comprano la più sicura delle ceste avranno un interesse più basso: però questa cesta è più sicura, perché riceve i soldi per prima. Se qualche agnellino muore nel primo anno e non diventa pecora, non produce latte, e ci sono meno formaggi: allora può succedere che le due ceste in basso non si riempiano. Ecco perché hanno un interesse più vantaggioso: più c’è rischio che restino vuote, più alta è la promessa di guadagno. Ecco perché ci vuole un mago: voi credete che scambino formaggi con soldi, e invece scambiate attese con promesse.
In realtà non c’è niente da vendere: i formaggi attesi domani oggi non esistono, e le promesse di dopodomani neanche.

Se sostituite alla ricottina i diversi generi di derivati – futures, options, swap –, e ai cestini i contratti strutturati a intervallo prefissato, avrete una rappresentazione (piuttosto semplificata) di come funzionano i rapporti tra banche e acquirenti. Ma la differenza tra primo, secondo e terzo cestino chi la stabilisce, direte voi? Beh, qui si arriva alla soglia della circonvenzione d’incapace. Per prezzare un formaggio bisogna testarlo: in parole povere, assaggiarlo, vedere se è compatto o se fa la goccia; in teoria, anche con i derivati. È un’operazione che si chiama pricing: il derivato viene scomposto nelle sue diverse componenti, e ciascuna viene testata in base alle possibili variazioni dei tassi (se sono swap), degli indici di borsa (se sono futures), delle singole azioni (se sono options). Ma in realtà nessuno è in grado di effettuare questo test, perché la sua verifica comporta affrontare equazioni lunghe pagine e pagine. Esistono dei software in grado di farlo: ma sono software costosissimi, di difficile utilizzo, in possesso di pochi soggetti. E in ogni caso, chi può sapere quale sarà la situazione dei mercati tra due, cinque, dieci anni? In parole povere, tocca fidarsi del pusher: che non è proprio uno di quelli che si dice bazzichino via Baluardi (infatti quelli di via Baluardi li arrestano).
Questo è il motivo per cui, alla lunga, il banco vince sempre, e chi acquista i derivati alla lunga perde. È il mercato, bellezza! Anche perché la favola dell’equilibrio tra domanda e offerta, se pure esistesse nella teoria (ma non esiste, come ha dimostrato il buon Sraffa), sarebbe inficiata dalla sproporzione di informazioni tra chi compra e chi vende. E gli spacciatori di derivati hanno senz’altro più informazioni degli acquirenti: non foss’altro perché possono permettere fior di consulenti che gli hanno spiegato, ad esempio la struttura degli enti locali casaleggio_influencer(come l’ex-ministro Linda Lanzillotta, per alcuni anni consulente sulle pubbliche amministrazioni locali presso J.P. Morgan, la prima banca per possesso di derivati sottoscritti da enti locali italiani). Come spiegava in una videolezione Gianroberto Casaleggio (si, proprio lui) nel 2009, il mercato, soprattutto quello virtuale, si fonda sugli “influencer“, non sui reali valori delle merci: “quando si accede alla rete per avere un’informazione, si accede ad un’informazione che di solito è integrata dall’influencer o è creata direttamente dall’influencer”. Non importa se fai e-commerce o politica, tanto è comunque azienda: se hai gli influencer giusti vinci, altrimenti perdi – fine della storia.

Si, ma: chi paga?

Facciamo un passo indietro: restiamo al passaggio intermedio in cui l’acquirente ha ancora della ricottina nel cestino, o magari è stato abbastanza abile da sganciarsi dal mercato prima di trovarsi in mano un cestino vuoto. Se il valore non si crea da solo o in natura, se le monete non fioriscono sui rami dell’albero nell’orto dei miracoli, come il Gatto e la Volpe raccontavano al credulo Pinocchio, chi paga quando il titolo derivato è in attivo? Come dite? Le banche? Ma che viaggio vi fate?
In una giornata in borsa un po’ più movimentata del solito, migliaia di piccoli investitori perdono rovinosamente i propri risparmi, e capiscono troppo tardi perché nel gergo sono chiamati “parco buoi”. Da qualche parte del mondo, in centro America poniamo, un mattino i lavoratori non lavorano più, perché non trovano più la fabbrica: le chiamano fabbriche-rondini, perché vengono smontate e trasferite nel giro di una notte. Da qualche altra parte, poniamo in Africa, un colpo di Stato militare garantisce il mantenimento di un basso prezzo per una materia prima fondamentale per il 20% benestante del mondo; o un improvviso rafforzamento di un esercito privato scatena una guerra civile (che a noi viene raccontata come guerra di religione) per il controllo di depositi di gas o petrolio da parte di quelli che chiamiamo volentieri “terroristi”, ma della cui natura terroristica nulla sembrano sapere le grandi compagnie petrolifere o energetiche che non faticano a trattare (magari scambiando petrolio o gas con armi). Da qualche altra parte – in Argentina o Indonesia, ma anche a Parma, alcuni milioni di piccoli investitori scoprono che la loro pensione “attesa” resterà per sempre “attesa”, perché i titoli su cui avevano investito la propria vita sono crollati. Il presidente di una grossa nazione come gli USA con un tratto di penna protezionistico rialza le quotazioni dell’industria tessile statunitense e determina nel contempo la perdita del lavoro di decine di migliaia di tessili del Bangladesh.
Per effetto di queste azioni, nel secondo e terzo mondo uomini, donne, vecchi e bambini piomberanno nella disperazione, moriranno di fame, di carestia (causata dallo spostamento incontrollato di milioni di profughi), di malattia, di guerra. Le stesse azioni provocheranno dei rialzi nelle borse del nord del mondo: la ristrutturazione è ben accetta ai mercati, anche se manda in miseria mezzo paese; il basso costo delle materie prime o delle fonti energetiche anche, mente i costi umanitari non sono oggetto di valutazione. Il rialzo borsistico produce valore virtuale, che viene scambiato per valore reale dando origine a una nuova teoria di cestini e ricottine per pagare senza averne i soldi i rendimenti del derivato. E non può che funzionare così, dal momento che il valore nominale dei titoli derivati è più di sei volte superiore al PIL mondiale, e non può reggersi sul solo rapporto tra merce materiale e valore di scambio: il che però non assolve chi continua a collaborare a questo gioco infame.

La politica del panico e del rancore

Può bastare? No, non basta. Perché se so, in modo oscuro e confuso (e non è un caso che mi si mantenga nell’oscurità e nella confusione) che la mia vita che ho cartolarizzato e riposta in una “aspettativa di profitto” dipende dall’andamento dei mercati finanziari, sui quali non ho alcun potere reale di intervento (e questo aumenta il panico, mio e di tutti quelli come me), sarò predisposto a cancellare la fastidiosa sensazione che procurano le notizie sulle crisi finanziarie che affamano il terzo mondo: una parte di me si prepara a dire quello che un’altra parte mai ammetterebbe in pubblico – che è meglio che crepino dieci guatemaltechi o cento masalit (che tanto neanche so dove stanno), piuttosto che io patisca un’ingiusta miseria. La finanziarizzazione dell’esistenza causa la deresponsabilizzazione etica. Causa il panico sociale, che è un’ottima arma politica sia per chi gestisce il potere, sia per chi usa le persone come masse di manovra pungolate da una politica del rancore. E siccome (cito Ryan Holiday, uno stratega del marketing) “rabbia e indignazione dei fruitori sono spesso la base per il successo di molte operazioni commerciali”, in un perverso circolo (virtuoso per alcuni, perverso per altri, comunque immorale) la produzione di rabbia e indignazione a mezzo di rancore e panico si allarga sempre più.
Infine: tutte queste pratiche costituiscono un rilevante strumento di formazione e orientamento dell’opinione pubblica, che esprime un consenso di fatto nei confronti della cartolarizzazione dell’esistenza e della finanziarizzazione di ogni aspetto della nostra vita. È una delle novità rilevanti della New Economy: i mercati finanziari “organizzano” il confronto tra le opinioni degli investitori in modo da “produrre” un giudizio collettivo da assumere come riferimento. A cerchi concentrici, ciò vale per quella minoranza di individui attivi sui mercati finanziari; per quella più larga fascia di cittadini-acquirenti, non importa di quale genere di merci; e per l’ancor più vasta cerchia di cittadini che esprimono di fatto (anche se inconsapevolmente) un consenso alle politiche di finanziamento del debito attraverso l’uso di strumenti finanziari, la dismissione del ruolo del “pubblico” e la privatizzazione dei servizi. E questo a sua volta si riverbera in politica come nozione perversa e malata di “pubblica opinione”, nella quale l’opinione è ridotta alla conta delle mani (la mitologia della “democrazia attraverso la rete”). È più importante avere dalla propria parte dei bravi influencer, piuttosto che creare dei luoghi di reale confronto: basta sostituire le piazze fisiche con le pseudo-agorà virtuali.

Did The Sopranos fall into decline by failing to change with the times?Per tornare al derivato Dexia: ripensate a cosa succede ogni volta che se ne parla. L’opinione pubblica si divide in due schieramenti, nessuno dei quali è in possesso degli strumenti che consentirebbero di sapere come stanno davvero le cose: e del resto, come stanno davvero lo sapremo solo quando la Corte di Londra emetterà la sua sentenza, favorevole o avversa al comune di Ferrara. Ciò non impedisce alle due parti di litigare con acredine, basandosi su meri pregiudizi, e anticipando nei propri strali quella sentenza che ancora non c’è: proprio come i derivati creano l’apparente realtà di un’aspettativa scambiata per un fatto, aspettativa che a sua volta crea passioni tristi che si concretizzano in offese e contumelie.
In realtà, per chi ha un minimo di etica  – e si batteva già nel 2002, e anche prima, contro questo mondo invece di accettarlo come un destino –, il derby sul derivato è una partita malata, nella quale non vince nessuno (perché vincono comunque le banche), ma al tempo stesso perdono tutti, perché a uscirne sconfitta è la percezione della differenza tra ciò che è morale e ciò che è immorale: è una conseguenza di quella cultura aziendale dell’efficienza economica e del risultato (vi ricorda niente?) che, mutatis mutandis, sembra piacere a quasi tutti.

Io a questo derby non partecipo, neanche come spettatore. Come dice uno dei miei poeti, di solito ho da far cose più serie, costruire su macerie, o mantenermi vivo. E continuare a pensare con la mia testa, naturalmente.

[Ringraziamenti: Giovanna Baer, Bifo, EuroNomade, Andrea Fumagalli, Jonathan Jarvis, Christian Marazzi, Report, Sbancor, Carlo Vercellone]

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