Esco di casa.
Non sono sicuro di essermi vestito nel modo giusto, quindi per prima cosa mi concentro sulla percezione che ho della temperatura esterna: è mite, davvero primaverile; faccio un controllo mentale e capisco subito che l’abbigliamento che ho scelto è corretto, né troppo pesante né troppo leggero. Parto in direzione della mura. Quando la raggiungo non mi sono ancora completamente riscaldato. Il respiro non è ancora regolare, i muscoli e le articolazioni non sono ancora del tutto sciolti, il sudore non ha ancora cominciato a inumidirmi la maglietta.
E’ il momento più sgradevole, non sono più un camminatore e non sono ancora diventato un podista.
Ma so che progressivamente (e con una rapidità che dipende dal mio grado di allenamento) il mio fisico si trasformerà, i muscoli e il cuore (un muscolo anch’esso, d’altronde) riceveranno più sangue e quindi più ossigeno, mentre gli organi meno utili nel momento dello sforzo saranno in parte sacrificati.
E so che starò meglio, la fatica assumerà una connotazione diversa, più precisa, più fluida; potrà essere anche maggiore ma sarà meglio finalizzata, arriverà perfino ad essere piacevole.
Già prima di arrivare all’alberone vedo Luca; sta arrivando dalla direzione opposta, come al solito puntualissimo.
Ci abbracciamo senza smettere di correre (un’arte che si mette a punto solo dopo anni di esperienza) ed eccoci subito a chiacchierare e a correre fianco a fianco.
Quasi automaticamente le nostre falcate si sincronizzano e sarà un caso, ma ora sento di correre meglio, sento di essere finalmente diventato un podista, anzi, siamo una piccola formazione di due podisti che svolgono il loro esercizio senza apparente sforzo, parlando tra di loro.
Anche il mio umore ora è diverso; i pensieri, le preoccupazioni della giornata sono in parte dimenticati e in parte rivisti sotto una nuova luce, ironica e positiva.
Arrivati alla casa del boia vediamo un gruppuscolo di cinque o sei ragazzi; potranno avere 16 anni, da come si muovono si vede che si sentono una “banda”. Non fanno niente di particolare, ma hanno un che di provocatorio e microcriminale; uno fuma, uno urina contro un albero.
Quello che pare il capo è alto e magro, con una felpa nera e il cappuccio tirato sulla testa; un altro, sovrappeso, è alle prese con dei jeans quasi grottescamente a vita bassa che deve riportare in posizione ogni due passi.
Tutti indossano le costose scarpe ginniche d’ordinanza, che nulla però hanno a che vedere con uno stile di vita sportivo o salutistico.
Li oltrepassiamo in silenzio e sentiamo per qualche istante i loro sguardi su di noi.
Luca, a cui all’inizio del nostro incontro avevo accennato la mia incertezza su come vestirmi, mi sussurra: “Non sei l’unico ad avere avuto dei problemi di abbigliamento, oggi”
Ridiamo e la leggera tensione causata dall’incontro si stempera.
Ma continuando a correre continuo a pensare a quei ragazzi, al parallelismo propostomi da Luca. Forse è vero, forse anche loro si trovano a mezza strada, come mi sentivo io poco dopo essere partito; non sono più piccoli ma non sono ancora grandi, non sanno quali parti sacrificare e su quali parti concentrare le loro energie.
Da un certo punto di vista anche per loro è il momento più sgradevole, non sono più bambini ma non sono ancora adulti.
La loro andatura non si è ancora sciolta, forse se sembrano minacciosi o arrabbiati è perchè non hanno trovato ancora il modo di rendere la fatica qualcosa di finalizzato e quindi, qualche volta, perfino piacevole.
D’altronde non sanno come staranno tra un po’, non si possono autoconsolare con il pensiero che a breve il loro fisico si adatterà, che potranno trovare qualcuno da abbracciare senza smettere di correre (un’arte che si mette a punto solo dopo anni di esperienza) e con cui fare assieme un pezzo di strada.
Per qualche minuto io e Luca ci scambiano considerazioni di questo tenore; mi sembrano ragionamenti sensati, ma mi pare di avvertire nei nostri discorsi qualcosa di falso, di eccessivamente autocompiaciuto per la nostra condizione di adulti.
Abbiamo chiuso l’anello delle mura, ci salutiamo, percorro da solo l’ultimo tratto di strada che mi riporta a casa. Potrei correre ancora molto, i muscoli sono perfettamente caldi, ma sono pensoso, in quella maniera vaga e inconcludente che di solito mi avverte che c’è qualcosa che non ho colto e che potrebbe riguardarmi da vicino.
Apro la porta di casa aspettandomi gli abbracci di mia figlia la quale, invece di venirmi festosamente incontro come fa di solito, se ne sta immusonita sul divano.
“Che succede?” chiedo alla mia compagna “Perché la Milla ha quella faccia?”
“Una sua compagna di asilo oggi le ha detto che ha un nuovo puzzle di “Frozen” e adesso lo vuole anche lei. E’ arrabbiata perché io le ho detto che non glielo compriamo. Con tutti quelli che ha! E’ solo invidia”.
Salgo le scale, mi spoglio ed entro nella doccia. Mentre il vapore appanna progressivamente lo specchio del bagno quella parola chiarisce progressivamente le mie idee. “Invidia”. Certo, tanti discorsi fatti dagli adulti sugli adolescenti sono giusti.
Ma siamo sicuri che perlomeno alcuni di questi in fondo non siano generati dall’invidia?