L'inverno del nostro scontento
12 Maggio 2013

Crisi globale e costituzione del Comune

di Girolamo De Michele | 8 min

In questo post presento un ciclo di incontri sulla crisi che avrà luogo a Ferrara, dal titolo “Crisi globale e costituzione del Comune“. Quattro conferenze che, come un’ellisse, ruotano attorno a non uno, ma due fuochi, due parole-chiave: crisi e comune. E che hanno l’ambizione di proporre una diversa prospettiva sulla fase economica e politica che stiamo attraversando.

Il primo concetto – Crisi economica – è, in apparenza, noto: tutti sappiamo che è in corso una crisi che coinvolge non solo il nostro paese, ma l’intero mercato mondiale, con ripercussioni più o meno drammatiche ai quattro angoli del globo. Una crisi che – questa è la prima pulce nell’orecchio – ci dicono essere scoppiata nel 2008, e che invece dura dalla primavera del 2001 (quindi da prima dell’attentato alle Torri Gemelle, cui alcuni attribuirono l’inizio di un periodo di depressione economica), rimbalzando da un settore dell’economia all’altro: dalla net-economy ai mutui immobiliari, ai titoli finanziari. Le tesi sulla crisi che cercheremo di argomentare erano state esposte in un volume intitolato, per l’appunto, Crisi dell’economia globale, già nel 2009. Gli autori dei contributi economici di quel volume – Marazzi, Fumagalli, Lucarelli, Vercellone – potevano all’epoca essere considerati, fatta salva la loro comprovata competenza scientifica, “radicali”. Nel corso degli anni, in modi diversi, si sono avvicinati alle loro tesi economisti più moderati, quali (solo per fare qualche nome) gli americani Krugman o De Grauwe, o il francese Orléan, capofila di un’importante scuola economica transalpina. E alcuni di quegli economisti “radicali” sono stati chiamati in televisione a spiegare le loro tesi, che evidentemente sono apparse ragionevoli e plausibili a più di qualcuno.

Cerco di riassumerle in pochi punti sintetici.

 

1. La crisi attuale non è accidentale né episodica: è una crisi strutturale, connaturata alla natura stessa dell’economia capitalistica. Questo vuol dire che è illusorio pensare che si tratta di stringere i denti e la cinghia ancora per un po’, perché prima o poi la crisi passerà e le cose torneranno quelle di prima: dopo questa crisi nulla sarà più come prima.

 

2. Questa crisi non è stata causata da apprendisti stregoni che hanno incautamente giocato con i titoli finanziari, né da qualche politico incapace o disonesto che ha fatto crollare i mercati rubando dalle casse dello Stato (la famosa “casta”). I mercati continuano a funzionare benissimo, e continuano a distribuire ricchezze ad alcuni nello stesso momento in cui le sottraggono ad altri: ad esempio, durante la crisi del luglio 2011 la liquidità a disposizione della banca Goldman Sachs (una banca che ha sede nel New Jersey, uno Stato che è una specie di vasta periferia di New York, noto al mondo, GS a parte, per essere lo Stato della famiglia Soprano) ha superato quella della Federal Reserve, la banca centrale degli USA. In altri termini, nei depositi di questa banca c’è più denaro contante che nelle casse del governo statunitense. Ricordo, per inciso, che per questa banca (definita dall’ADUSBEF «la Spectre che gioca con i derivati sui destini del mondo» hanno lavorato uomini come Gianni Letta, Romano Prodi, Massimo Tononi, Mario Monti e Mario Draghi.

 

3. Questa crisi non dipende dal fatto che i mercati non funzionano e sono come impazziti: i mercati finanziari continuano a funzionare, e sono governati da un ristretto numero di banche – le cosiddette SIM, Società d’Intermediazione Mobiliare –, un pugno delle quali possiede 2/3 del totale dei flussi finanziari in circolazione, e oltre il 90% dei derivati. Oltre alla già citata Goldman Sachs, meritano una menzione la JP Morgan, che detiene la maggior parte dei titoli derivati con cui sta strozzando gli enti locali italiani, e la Deutsche Bank, protagonista principale della speculazione che ha determinato, col crollo dei titoli italiani e l’innalzamento di quelli tedeschi, il citatissimo “spread”. Che lo spread tra titoli italiani e titoli tedeschi sia dipeso da una manovra speculativa attraverso una pressione psicologica, ossia determinando timore per i rendimenti dei titoli italiani e rassicurazione nei confronti di quelli tedeschi, non vuol dire che “lo spread non riguarda la vita degli italiani”, come improvvidamente è stato capace di dichiarare l’ex presidente del Consiglio Berlusconi, che non è stato capace (ad essere benevoli) di prendere provvedimenti efficaci durante la crisi (ma che nello stesso periodo ha visto salire le quotazioni delle proprie aziende): l’aumento degli interessi sui titoli di Stato lo paghiamo tutti, perché significa aumentare il debito pubblico, con le tasse, la perdita di posti di lavoro e i tagli ai servizi.

 

4. La crisi non è determinata dalla mancanza di ricchezza, come abitualmente vi raccontano (da ultimo il presidente Letta). La ricchezza c’è: ma è finanziarizzata. Mi spiego: nell’ultimo quindicennio, al netto degli interessi sul debito pregresso (una simpatica eredità dei governi Andreotti-Forlani-Craxi, che qualcuno considera ancora grandi statisti), l’Italia ha speso tanto quanto ha incassato. Il che significa che non ci sarebbe ragione, se l’economia fosse solo questione di numeri, di dubitare della solvibilità dell’economia italiana (da cui dovrebbe dipendere lo spread). Come abbiamo fatto a tenere il bilancio in pari (al netto, ripeto, degli interessi)? Lo sappiamo tutti, con una serie di manovre “lacrime e sangue”, cioè con una vera e propria macelleria sociale. Resta che la ricchezza c’era, se è stata possibile prelevarla. La domanda è: dov’è finita? Negli interessi sul debito, che le manovre finanziarie hanno fatto crescere. Cioè negli interessi su titoli, derivati, ecc.

 

5. L’andamento dei mercati è determinato non da comportamenti oggettivi dell’economia (ne parlavo del post precedente), ma da passioni come paura, timore, speranza, aspettative di guadagno, panico sociale: su questo c’è ormai un largo consenso tra gli economisti che citavo. Questo non vuol dire che il mercato sia impazzito, né che i governi non sappiano come comportarsi: vuol dire che le passioni sono usate come strumento di governo (in assenza del consenso che viene dall’adesione dell’elettorato a un ideale o un programma politico). Si genera panico sociale per poter offrire risposte improntate a “efficienza” e “governabilità”, in nome delle quali si riducono i diritti: grazie alla crisi è più facile licenziate, è più facile abbattere i salari, è più facile ridurre la democrazia sui luoghi di lavoro, è più facile mandare in rovina scuola, università e ricerca, è più facile tappare la bocca al dissenso – taci, lo spread ti ascolta! -, è più facile (dalla Grecia alla Spagna, dal Portogallo all’Italia) rendere le elezioni un rito superato e antieconomico, il cui esito può essere disatteso. Non è una storia del tutto nuova: lo aveva già detto Platone che il tiranno, quando va al governo, prima sorride a tutti e promette di cancellare i debiti, poi impoverisce la Città con debiti e guerre affinché i cittadini, preoccupati della crisi, non abbiamo a fare critica politica.

 

L’effetto della crisi è, soprattutto, quello di farci sentire individui isolati, ciascuno rinchiuso dentro i propri problemi: io lavoro duro per quattro soldi e ho altro a cui pensare, che me ne frega di quelli che si lamentano, e magari guadagnano più di me?, si sente spesso dire. È un ragionamento idiota (l’idiota è, letteralmente, colui che si disinteressa degli altri e pensa solo a se stesso), ma così è: nelle attuali condizioni, è normale che il mondo si riempia di soggetti egoisti, terrorizzati dalla crisi e disposti a ogni forma di obbedienza, e quindi al lavoro in nero, al fuori-contratto, alle buste paga aperte, alle dimissioni firmate in bianco, al leccare il culo al “capo” per avere migliori condizioni di lavoro a scapito degli altri – e tanto peggio per loro!

Il punto è che se l’attuale crisi è connaturata al funzionamento dell’economia globale in forma di economia finanziaria, l’unico modo per uscirne è quello di sollevare l’attuale stato di cose.

Per sollevare qualsiasi peso è necessario un punto d’appoggio su cui far leva. Il punto d’appoggio è la seconda parola-chiave: il comune, una parola corrispondente al Common- che compone il termine inglese Commonwealth. Il comune è la dimensione comune che precede quella individuale, e la fonda. È l’insieme degli uomini e donne, non come massa unica orientata in un’unica direzione, ma resa possibile dalle molteplici differenze concrete che all’interno della dimensione comune hanno luogo e si intrecciano tra loro. È quella dimensione che fonda i cosiddetti “beni comuni” – aria, acqua, ambiente, sapere, conoscenza: che sono comuni (in inglese infatti li si chiama Commons) proprio perché esistono nella dimensione del comune. Non è un bene comune l’acqua che esce dal mio rubinetto di casa: è un bene comune l’acqua in quanto tale, come dimensione comune all’interno della quale esiste un diritto ad averla nelle case, un diritto alla tutela dei fiumi e dei mari, un diritto alla raccolta dell’acqua piovana affinché sia di beneficio a i campi invece che causa di inondazione o esondazione, ecc. Dire che i beni comuni sono Commons, cioè beni del comune significa affermare due cose fondamentali: che non possono essere spacchettati, venduti o subappaltati, sottomessi agli interessi privati; e che la loro esistenza va tutelata indipendentemente dal fatto che il singolo ne goda o meno. L’istruzione è un bene del comune perché ne traggono vantaggio non solo quelli che vanno a scuola, ma l’intera società, che cresce o decresce a seconda di quanto sapere circola per concretizzarsi in progettazione, invenzione, innovazione. Che i beni debbano essere comuni lo abbiamo affermato con i referendum del 2011 su acqua e ambiente (tra i cui promotori c’era Rodotà, con buona pace di chi afferma che non avrebbe mai fatto nulla per l’interesse comune). Ma fermarsi a dichiararli beni comuni non può bastare, se poi la volontà referendaria della maggioranza degli italiani viene aggirata attraverso la gestione dei beni con aziende formalmente “pubbliche” o municipalizzate, ma verso le quali io, come cittadino, non ho voce in capitolo.

È necessario inventare e imporre forme di gestione comune dei beni del comune come forma di democrazia diretta: cioè come pratica di quella fuoriuscita dalla società attuale nella quale siamo condannati alla crisi e allo sfruttamento.

 

Il ciclo di incontri “Crisi globale e costituzione del Comune”, organizzato dai collettivi UniNomade e Sancho Panza, si svolgerà al CPS La Resistenza, via della Resistenza 34, ore 20.30 col seguente programma:

14 maggio – Comune (Toni Negri)

21 maggio – Passioni tristi e società del controllo (Girolamo De Michele)

28 maggio – Crisi dell’economia globale (Sandro Mezzadra)

04 giugno – Decostituzionalizzazione e dispositivi sicuritari (Sandro Chignola)

 

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