C’è una leggenda metropolitana che circola da anni, assieme al topo che sembrava un chihuahua importato dal Messico e al motociclista senza testa sull’autostrada: “Grazie alle scuole paritarie lo Stato risparmia quasi 6.000 € per ogni studente, ovvero oltre 6 miliardi all’anno”. Non lo dice mio cugino, o la portinaia che l’ha saputo dal parrucchiere: lo affermano personalità “autorevoli” come Elena Ugolini (proprietaria e preside di un liceo privato, consigliere principe di Mariastella Gelmini e poi sottosegretario all’Istruzione con Profumo, responsabile per anni del Sistema di Valutazione nazionale della scuola Invalsi), Giorgio Vittadini (presidente della Fondazione per la Sussidiarietà ed esperto al servizio di Gelmini), Giuseppe Colosio (già direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale della Lombardia, attuale collaboratore della Fondazione bancaria che gestisce il “Liceo Internazionale per l’Impresa Guido Carli”), Gabriele Toccafondi (neo-sottosegretario all’Istruzione); e testate “autorevoli” come “l’Avvenire”, “Tempi”, “il Sussidiario”, il “Messaggero di Sant’Antonio”.
Come si arriva a questo calcolo? Si dividono i costi della scuola pubblica per numero di studenti, si fa lo stesso con le scuole parificate/private, e si ottiene la differenza quantitativa tra un cesto di fave e uno di rape, mescolando la rava e la fava. In primo luogo, infatti, si mettono a confronto la totalità delle spese per la scuola pubblica, e la quota a carico dello Stato per la gestione delle scuole parificate: si otterrebbe un risultato opposto (le scuole parificate costano alle famiglie più di quelle pubbliche, quindi chiudiamole) se si mettesse, con pari scorrettezza, a confronto la quota dei contributi volontari che le famiglie versano alla scuola pubblica, e la retta delle scuole parificate. In secondo luogo, è falso che lo Stato risparmi 6.000 € per ogni studente che si iscrive alla scuola parificata: la variazione dei costi di gestione (luce, riscaldamento, acqua) e degli stipendi degli insegnanti e ai bidelli (che non sono pagati a cottimo per numero di studenti) è pressoché irrilevante al variare del numero di iscritti. Insomma, è come se vi dicessero che le case di riposo fanno risparmiare, perché mandando la nonna all’ospizio una famiglia di 5 componenti risparmia il 20% su riscaldamento e condominio.
Questo calcolo, se sincero, denoterebbe capacità logiche preoccupanti, soprattutto se consideriamo che le “autorevoli” persone sunnominate hanno, o hanno avuto, responsabilità dirette nella gestione del sistema-Istruzione.
Ma pensate che sia casuale? Vi do un indizio: tutte le “autorevoli” persone che vi ho nominato sono di Comunione e Liberazione, la più importante lobby di scuole private in Italia (attraverso la Compagnia delle Opere – Opere Educative): dunque parte in causa nella polemica tra pubblico e privato. Ma come!, direte: anche la responsabile della valutazione, cioè l’arbitro, del sistema-istruzione? Ebbene, si! Neanche Luciano Moggi era arrivato a concepire un arbitro che non si schiera con una delle due squadre, ma è uno dei giocatori di una delle squadre in campo. Per la cronaca: ieri sono stati nominati due sottosegretari all’Istruzione che non si sono mai occupati di scuola (se non per batter cassa per le scuole private): ma sono di Comunione e Liberazione. E se uno dei due si chiama Toccafondi, qualcosa vorrà dire…
Passiamo a un altro tema, che in apparenza non c’entra – ma c’entra. Qualche giorno fa, con l’articolo di Paul Krugman The 1 Percent’s Solution (“New York Times”, 25 aprile, tradotto su “Repubblica” col titolo L’austerity è finita KO il 27 aprile), abbiamo appreso che il più autorevole documento che negli ultimi 3 anni ha influenzato le politiche di austerity nel mondo – Reinhart e Rogoff, Growth in a Time of Debt – è inficiato da un clamoroso errore di programmazione di Excell (la “Excell depression” l’ha ironicamente definito Krugman). Quel documento pretendeva di dimostrare che esiste una soglia matematica, nel rapporto tra deficit e PIL – il 90% – oltre la quale la crisi diventa fatale. Attenzione: quel rapporto (assieme al paper di Alberto Alesina e Silvia Ardagna Large Chances in Fiscal Policy) ha influenzato in modo determinante tanto le politiche di Tremonti e Giorgetti (il presidente leghista della commissione Bilancio nella scorsa legislatura, uno dei 10 “saggi” di Napolitano) quanto quelle di Monti, col sostegno dei principali commentatori sulla grande stampa – uno per tutti, Francesco Giavazzi, editorialista del “Corriere della Sera” e sodale di Alberto Alesina, autore della riforma-Gelmini dell’Università e poi collaboratore “esperto” del governo Monti. Ma sarebbe troppo facile dare tutta la colpa all’imperizia informatica di questi “autorevoli” economisti. In realtà quei due rapporti erano già stati ampiamente criticati, perché le loro proiezioni comprendevano o omettevano dati a seconda del risultato che si voleva ottenere (ad esempio non computavano quei paesi che, pur superando la fatidica soglia del 90%, non erano caduti in depressione economica), o utilizzavano modalità di calcolo definite eufemisticamente “discutibili”: un po’ come fece l’Invalsi quando ricalcolò per tre volte, con tre diversi metodi, i dati delle Prove nazionali 2009 delle scuole medie per allinearli ai “risultati attesi”; quei dati “inattendibili” sono poi stati confermati dalle successive rilevazioni.
Di nuovo: pensate che sia casuale che alcuni “autorevoli” economisti facciano errori di metodo, calcolo e programmazione di questa entità? O forse le loro errate linee programmatiche servivano a orientare, spargendo il panico, i mercati, e attraverso le pressioni dei mercati i decisori politici?
E pensate che chi si è “autorevolmente” bevuto quei rapporti stia facendo ammenda e cambiando mestiere? Che Giavazzi si dimetta dalla Bocconi in cui insegna queste cose e si iscriva alle liste di collocamento per andare ad avvitare bulloni?
Cos’hanno in comune, queste due bufale mediatiche che vi sto raccontando?
In primo luogo, funzionano perché nessuno va a controllare se è vero o no quello che si afferma: ci si fida della “autorevolezza”, senza neanche chiedersi come si fa a diventare “autorevole” o “saggio”. Questa tendenza, visto che il nuovo governo vuole esautorare il parlamento del potere legislativo sostituendolo con una “Convenzione costituzionale” costituita da “saggi”, dovrebbe preoccuparci non poco.
In secondo luogo, perché si ammantano della religione dei numeri: come se dietro i dati quantitativi non ci fossero vite concrete. Si parla di rapporto deficit-PIL, di spread, di tassi d’interesse, e si dimentica la distruzione del Welfare State, i 9 milioni di italiani (se votassero tutti insieme sarebbero il primo partito) che non sono in grado di pagare i ticket sulla sanità e quindi non accedono alle cure mediche.
Ci si arresta davanti al numero che indica i costi delle scuole private, senza interrogarsi sulla qualità dell’istruzione che forniscono: la più scadente dell’intera area OCSE, ci dicono gli studi – che vengono però occultati dai signori delle lobby private infiltrati nella direzione della scuola pubblica. Se la scuola italiana aveva (prima della riforma-Gelmini!) recuperato quasi per intero il gap con l’area-OCSE, e il sistema liceale era ben al di sopra della media, le scuole private sono all’ultimo posto dell’intera area-OCSE: a chi interessa favorire una scuola che non insegna a comprendere la matematica, e danneggiare una che invece la sa insegnare? Forse a chi intende continuare a falsificare rapporti, statistiche, paper?
Ci facciamo raccontare un sacco di favole, come quella di Biancaneve: e per di più ci lasciamo abbagliare dallo spread tra i nani e la regina cattiva. Stiamo accettando l’idea che se un governo cade non si va a votare perché costa (di nuovo numeri), se non c’è una maggioranza si tradiscono i patti elettorali perché votare farebbe salire lo spread (di nuovo numeri), che i risultati elettorali (come già in Grecia) sono meno importanti di quello che “per il bene dell’economia” (di nuovo numeri) decidono pochi “autorevoli”, “saggi” o “esperti”. E nessuno sembra accorgersi che i numeri sono spacciati per “oggettivi” perché “oggettivi” vengono fatti diventare a prescindere, non perché lo siano davvero.
E quando non si sa come giustificare le proprie parole mendaci si fa come nei film di Quentin Tarantino: si cita un passo della Bibbia che non c’entra niente, come facevano i farisei che avevano i testi appesi davanti agli occhi per poterli citare a menadito – come ha fatto Enrico Letta, citando Davide e Golia –, e si tira dritto per la propria strada. Basta che ci siano degli “esperti”, con i loro “numeri esatti”, a indicare la direzione.