Non ho idea di quanto ci aspetta nelle ore successive, nei prossimi giorni, nelle settimane che verranno, nei mesi. Non ne ho idea. Penso solo che tuo padre sta morendo e che io dovrò dirlo a te e a sua madre.
Sono le nove. Entra la nonna, saluta con la sua naturale esuberanza. Non capisce, ha chiuso il cervello, sembra quasi contenta che sia riuscita a portare Luca in ospedale.
Crede che un ricovero risolverà tutto. Negli ultimi tempi lo ha visto che sprofondava nel niente, che affogava senza chiedere aiuto, che soffocava nel non senso. Lo ha visto, c’ero io con loro, le ho sentite io le solite parole di mamma che lo rimproveravano come se potesse contare qualcosa. Eppure questa sera sembra anche lei serena, come se finalmente con questo ricovero le cose prendessero, comunque, la direzione giusta.
Sei tu Antonio che le dici che il papà non c’è, è in ospedale e non si può visitare perché quello che ha attacca.
“Ho la recita di Natale, nonna, sabato. Non posso rischiare di ammalarmi”, ti giustifichi con quegli occhi di mare che si accendono di gioia quando pensi al domani. Sull’oggi vengono fuori tutte le tue insicurezze, paure, angosce e gli occhi si sbarrano nel terrore. Appena proietti la tua vita nel domani la luce ti circonda di immenso e di speranza. In quei momenti sei contagioso e io mi avvicino piano piano nell’abbraccio che ti rubo per riuscire, se non più a volare, almeno a camminare insieme a te.
La recita di Natale….e le luci dell’albero che continuano ad accendersi e spegnersi davanti a noi. Un’altra festa importante che dovrai vivere senza il sorriso, l’ammirazione di un padre. Forse sono io che ti amo troppo e ti ritengo senza difese, oppure è perché anche a me da bambina sono mancate tante attenzioni che avrei desiderato e, proprio come stai facendo tu, mi inventavo di tutto pur di essere guardata anche solo un istante. Il mio rifugio sono stati i libri, la mia compagnia i miei due amici immaginari, Luciano e Marino (ricordo ancora il vostro nome). Alla fine si cresce, amore mio, se si ha la fortuna dell’immaginazione si cresce comunque e anche bene, imparando a rafforzare le difese e a non risparmiare sugli abbracci che a me sono stati tolti. Non per cattiveria, si intende, per motivi complicati, che io non ero comunque tenuta, proprio come te oggi, a comprendere e ancor meno a giustificare.
Racconti a me e alla nonna la tua parte da cattivo nella recita. Ripassi le canzoni in inglese con quella vocina timida appena accennata che mi scuote il cuore e mi riempie gli occhi di lacrime.
“Mio padre ci sarà, mamma?”, chiedi conoscendo già la risposta.
“No, tesoro, non credo proprio sia il caso. Te l’ho detto che la cosa più importante adesso è che si curi”, ti rispondo talmente convinta che quasi ci credo anche io.
“Allora registra la recita”, e adesso sei di nuovo arrabbiato.
“Certo, comprerò una telecamera, te lo prometto, filmeremo tutto e poi glielo faremo vedere insieme al papà”, non so come faccio, ma riesco ancora ad essere convincente e rassicurante. Quando arriva l’ora di andare a dormire ti inventi come sempre una scusa. Vuoi giocare con me, riporre i quaderni e i libri nello zaino, mettere in ordine l’astuccio. Tutto faresti pur di evitare il sonno. Sei sempre stato così. Mi chiedo cosa ti spaventa della notte. Forse i tuoi i sogni? Sono mesi che hai paura dei fantasmi, dei mostri, delle piramidi di fuoco. Tremi solo all’idea di restare in una stanza senza qualcuno di fianco a te. Per questo abbiamo cambiato il letto, uno matrimoniale, per dormire comodamente in due e cercare così un modo per attraversare le tue ansie insieme, anche questa volta, piccolo mio. Sempre. Sono sincera, Antonio, ho accettato di dormire con te perché non riesco più a dividere il letto con tuo padre. Ho paura anche io, ma i miei fantasmi sono più veri, puzzano di presenza, sono invadenti e rumorosi, soffocano, disturbano il sonno. Per questo mi è sembrato ragionevole per entrambi una momentanea condivisione anche della notte. Vediamo e speriamo un giorno di dormire chiudendo negli occhi solo i sogni più belli.
Sono le dieci. Mi sdraio al tuo fianco e ti leggo l’ultima avventura del tuo topo preferito, Geronimo, e chi altro? Tu guardi per un attimo soltanto quella poltrona rossa, sulla quale fino a ieri si sedeva tuo padre ad ascoltare con gli occhi pesanti e a ridere a tratti, proprio come un altro bambino. Lo so che ti manca, nonostante la rabbia che non riesci ad esprimere, se non nell’assurdità del capriccio. Ti alzi e vai a riempire tu quel vuoto, quella assenza pesante e ingiusta. Ti agiti tra la poltrona e la sedia della scrivania. Poi prendi un libricino di quando eri più piccolo e ti metti a colorare.
In questo momento vorrei essere dentro la tua testa e aiutarti a muovere le ragioni e i dubbi, vorrei darti la mano, stringertela e dirti di lasciarti condurre Ti dico che la mamma c’è ed è ancora piena d’amore. Anche per quell’uomo che ha sposato tanti anni fa e che da tanto non c’è più. Purtroppo tu quell’uomo non l’hai mai conosciuto, Antonio caro.
Le luci si spengono sulle nostre tristezze confuse tra preghiere e risatine di fine giornata. Ti dico di fare sogni belli e che la mamma manderà via tutti i mostri e i fantasmi e mentre lo dico a te ci credo ancora. So improvvisamente quello che non posso più rimandare.
Controllo se il telefono è acceso, lo appoggio di fianco a me e chiudo finalmente gli occhi sul tuo respiro pesante e caldo. Sai di vita, ne avevo bisogno.
I miei occhi si chiudono sfiniti di dolore ingiustificato, che non ho cercato e che comunque non avevo messo in conto, oppure da pessima ragioniera ed amministratrice di me stessa avevo semplicemente calcolato male.
E’ l’una e uno squillo del telefono mi fa salire il cuore alla gola, quasi mi strozza quel pronto che esce tra il sonno e la veglia.
“Chiamo dal reparto di gastroenterologia. Mi dispiace svegliarla ma suo marito sta girando per l’ospedale e disturbando infermieri e pazienti. Credo che la situazione sia ingestibile se non si calma e noi non siamo in grado di seguirlo”, mi dice una voce estranea dall’altra parte del telefono. “Vede il fatto è che non possiamo sedarlo nella situazione in cui siamo e non abbiamo abbastanza personale per seguire i suoi movimenti. Sembra fuori di sé, fa lo sgambetto alle infermiere, ride, grida che deve tornare a casa, dice che domani deve sbrigare faccende importanti di lavoro. Sembra quasi uno stato allucinatorio. Non sappiamo come intervenire”, conclude con voce disarmata. Le mie mani tremano.
“E io cosa posso fare, mi dica? Vuole che vi mandi una badante? Io sono sola con mio figlio, non posso muovermi in questo momento”, rispondo nella speranza di un non si preoccupi ci pensiamo noi, in fondo questo è un nostro dovere, lo leghiamo se necessario, lo frustiamo, lo riempiamo di sedativi o che ne so.
“Signora, capisco le sue ragioni, ma se continua così saremo costretti a trovare una soluzione. Per stanotte ci pensiamo noi, domani venga che ne parliamo. Le chiedo scusa
se l’ho disturbata”, mi saluta e riattacca. Perché mi ha chiamata? Cosa pensava che potessi fare? Cosa vogliono da me?
Resto con gli occhi sbarrati e penso di che cosa potremo mai parlare domani. Stamattina mi hanno detto che non sanno se vivrai o entrerai in coma e adesso mi chiamano e mi dicono che non riescono a calmarti. E io cosa potrei fare, cosa? Mi sforzo di trovare delle risposte alla mia angoscia lacerante. Mi vengono in mente le parole del dottore, i termini tecnici, mi parlano di ammonio, di encefalopatia e io non so niente, niente se non che forse stai morendo. Poi mi chiamano perché non riescono a contenere i tuoi umori, i tuoi salti per il corridoio, perché disturbi. La notte si appoggia sul filo sottilissimo della follia che investe entrambi in luoghi distanti, io che misuro tutta la mia impotenza e sprofondo e tu vacilli e non sai quanto dolore e quanto tempo occorrerà perché si dissolva.
Che battaglia inutile e assurda, la mia, che idiota a pensare che prima o poi sarebbe finita senza pena, senza feriti, caduti. Mi alzo nervosamente dal letto, mi appoggio al muro, mi rendo conto che devo avere la pressione sotto ai piedi. I crampi alle gambe, la spalla destra annichilita. Prendo qualche goccia di ansiolitico. Accendo la televisione, non so che ore sono, non mi interessa. Aspetto la luce come se potesse essere semplicemente quella una risposta. Immagini diverse mi passano davanti ad uno sguardo svuotato, sono immagini di cadaveri sezionati, di corpi assassinati, di serial killer spietati e sanguinari. Ho spinto tre numeri a caso ed è uscito il tuo canale preferito. Del resto ti sento ancora, seduto sulla poltrona, in ipnosi, senza fiato e vita. Sei qui come ieri e chissà per quanto continuerai a camminare sulla vita che mi resta.
Ci sono i tuoi odori, i tuoi profumi, le tue creme, le tue impronte ovunque. Come farò a cancellarle? Chi mi accompagnerà mentre laverò con la candeggina tutta la sporcizia della tua vita per riprendermi la mia? Chi?
Sposto da me la tua presenza soffocante, la tua risata, ti allontano in tutti i modi. Mi accorgo che mi abiti dentro.
Mi tornano in mente tutte le parole che mi indirizzavano all’abbandono, parole amiche che non ho mai voluto ascoltare.
“Lascialo, ti fotte la vita. Cosa credi di poter fare ancora, a lui non interessa niente, non riesce ad amare e tu non fai altro che logorarti giorno dopo giorno”, così suonavano
all’unisono le parole amiche. E io sorda a ridurmi nel niente che oggi sono, con il cuore algido, la paura dell’altro, e i muscoli che si sgonfiano sempre di più.
Una tenue luce si affaccia alla nuova giornata. Non ho fame, non ho sonno, non sto in piedi. Aspetto il risveglio di Antonio
La porta si apre ed entra Bianca con il suo viso sciupato e i capelli già in disordine. Ci guardiamo senza parlare e ci sentiamo dentro perché siamo donne che per ragioni diverse fanno rumore nel silenzio.