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4 Maggio 2013

Piovono sassi dal cielo (III parte)

di Francesca Boari | 12 min

E poi mi piegavo sopra questi pensieri di morte e mi odiavo perché non avrei mai trovato le parole per spiegare tutto ad Antonio, mi odiavo perché se ti avessi amato davvero avrei dovuto fare l’unica cosa di senso. Lasciarti. E’ questo stesso odio che mi annullato come donna, che mi ha sigillato il cuore nel non senso, mi ridotto all’impotenza, all’incapacità di agire verso te e soprattutto verso di me. Mi sono chiesta più volte il perché, ma ho girato sempre la testa dall’altra parte, ho rimandato qualcosa che non si poteva, non si doveva rimandare. Aspettavo che la morte si rivelasse in tutta la sua evidenza in uno stato di morbosità quasi patologica, sapendo perfettamente che quel giorno sarebbe arrivato.

Sono le otto e trenta e ti mando un bacio davanti al cancello della scuola. Da quest’anno non vuoi più che entri, ti accompagni davanti all’aula. Antonio, sei così spaventato, hai paura di tutti, non vuoi essere toccato, abbracciato e non baci nemmeno più me. Perché, creatura dolcissima?

La sera, appena chiudi gli occhi verdi di mare, ti riempio di quei baci che mi neghi da sveglio, ti stringo nella forza di un abbraccio e ti sussurro piano piano che ce la faremo. Serve più a me che a te, so bene, tu sei pieno di progetti, e quando me ne parli mi riempi il cuore.

“Mamma, perché hai sposato il papà?”, mi chiedi perplesso come chi ha capito anche troppo, hai solo dieci anni.

“Perché volevo te, amore, cuore, luce mia”.

Ed è vero, Antonio, e forse anche in questo ho deciso da sola, perché tuo padre non era pronto né ad essere un marito né tanto meno un padre.

Ti giro le spalle e so cosa devo fare, oggi lo so, non posso più rimandare.

Una colazione veloce, il solito cappuccino (il terzo caffè della giornata), due chiacchiere con i genitori degli amici di Antonio e poi corro a casa.

Dalle scale ti chiamo e ti domando se sei pronto. Non ho più voglia di aspettare nemmeno un istante. Mi rispondi di sì. Oggi ti porto in ospedale. Non stai nemmeno in piedi, non dormi da sei mesi, non mangi, non bevi e sono due notti che il nostro letto è ricoperto di feci.“E’ stato il gatto”, così hai detto stamattina.So che non è vero e so che non sai cosa dici, nemmeno te ne accorgi.

 

 

Sei inguardabile, pallido, due cerchi neri sotto gli occhi che non stanno aperti per più di qualche istante.

“Sembri un fantasma, papà, mi fai paura”, così ha detto Antonio ieri sera.

Da settimane non riesco a lasciarti in una stanza con tuo figlio senza che dopo poco si sentano urla di terrore.

Tu lo mandi a fanculo, lo riempi del senso di una colpa che non può avere e non è giusto che abbia. Una colpa che abbiamo solo noi due. Lo tratti male, gli anche messo le mani addosso, avanzando la scusa di un gioco, gli hai fatto male. Nessuno capisce che cosa sta per succedere alle nostre vite, io lo aspetto e lo immagino, Antonio lo intuisce ed è terrorizzato, tu non capisci più niente, ti muovi come un ombra che non riesce più a rappresentarsi, come se il mondo fosse diventato d’improvviso un palcoscenico stretto, il tuo ruolo inesistente come il tuo regista. Gli sei scappato dalle mani, ti ha creato più forte di lui, non ti tiene più, non sa le tue direzioni, non sa nemmeno che abito devi indossare perché le scene sono volate via.

Ti stai abbandonando alla fine, hai deposto le armi e ti manca la dignità di andare a morire lontano da noi. In fondo, ora per te, non siamo che estranei.

Mi fai pena e rabbia, ti raccolgo con i muscoli che mi restano e ti trascino all’ospedale.

“Luca come stai? Cosa ti è successo?”, è Massimo, il tuo unico amico, forse allontanato da te per il solo fatto che non ha mai condiviso la tua merda. Massimo ha un taxi e fatica ad arrivare alla fine del mese. Mi raccontavi delle vostre scorpacciate da bambini, che veniva in vacanza  con te e tua madre e ingrassava ogni estate sette chili. Io e Massimo ci siamo incontrati poche volte. Mi sembra un ragazzo ingenuo e buono, troppo buono per essere un tuo amico. Eppure lo vedo anche adesso nei suoi occhi il bene che ti vuole. Non capisce esattamente il problema, ti crede. Non sa che non hai mai smesso di bere. Non sa molto di te. E del resto chi sa qualcosa di te?

“Non tanto bene”, hai la forza di rispondere, sempre nella finzione anche adesso che hai la vita stropicciata addosso.

“Ti vengo a trovare, dài, riprenditi, ci vediamo presto”, chiude imbarazzato Massimo guardandomi con pietà.

 

 

Siamo davanti allo studio del dottor Mantessi. Ci fa aspettare, tu non ne puoi più, io nemmeno. Dici che hai bisogno di stenderti, che speri che i medici ti rimettano in forza, oppure un miracolo, questo serve, perché messo come sei solo questo potrebbe risollevarti. Io non so ancora cosa augurarmi. Certo spero ti tengano dentro il più a lungo possibile, spero che ti leghino al letto e non ti facciano mai più uscire. Non riesco a guardarti in faccia, non riesco a rivolgerti la parola. Ho una rabbia in gola che mi strozza il respiro.

Finalmente entriamo nell’ambulatorio del dottore e tu hai ancora il coraggio di una bugia che imbarazza l’intelligenza di chiunque, io muovo solo la testa e imploro con lo sguardo un ricovero immediato. In qualsiasi ospedale della zona. Lontano da me. Ti sta guardando con disprezzo, loro sanno che possono ben poco su persone come voi. Non ti crede più, gli hai raccontato, anche a lui, troppe cazzate. Si sente offeso e impotente. E’ incazzato e mentre il suo viso diventa sempre più rosso il tuo si scava nello scheletro che resti e il mio si riempie di terrore. Di nuovo il senso dell’abbandono, dell’impotenza, del vuoto, del niente. Penso ad Antonio, che è a scuola e non sa dove sono io, non sa perché suo padre non capisce più niente. Penso alle sue paure, alle sue urine scure, alle notti trascorse all’ospedale con lui, penso a quanto lo amo, mi attacco a questo e ritrovo il coraggio di una supplica.

“Dottore la prego, lo ricoveri, così mi muore in casa”.

Non piango. Sono gelata.

Mantessi alza la cornetta del telefono e chiede un posto letto per un paziente molto grave.

“Si tratta di una urgenza, fate una cortesia, trovate almeno una brandina in corridoio in grastro”, dice con tono deciso.

“Adesso ve lo mando giù subito. Grazie”, e si rivolge verso di te che in questo momento piangi come un bambino.

E’ duro, non gli fai pietà, ti dice che non ha senso ridursi così, che dovevi pensarci prima. Parole al vento. Niente di più.

Io so che non sa di cosa parla.

Ci alziamo, lo ringrazio e ti accompagno nell’ambulatorio del pronto soccorso.

 

 

Le dottoresse sono tutte molto gentili, capiscono che non sei più in te, ti fanno gli esami del sangue, ti distendono, mentre tu parli con un infermiere di tutti i tuoi pazienti, ti lodi perché dici che hai lavorato fino ad una settimana prima di questo disastro. Loro ti reggono benissimo la parte e ti fanno i complimenti. Tu sei contento. Io sono disperata. Capisco che siamo ad un punto di non ritorno. Capisco che sta accadendo qualcosa di peggio, se possibile, della tua morte. Stai precipitando nella follia. Il fegato non funziona più e così le urine, tutte le sostanze tossiche ti arrivano direttamente al cervello. Mi parlano di ammonio, di encefalopatia, che difficilmente ce la farai, che potresti entrare in coma da un momento all’altro, che siamo arrivati appena in tempo. Io ti abbraccio e intanto mi tengo in gola le lacrime che mi strozzano, non so cosa provo, forse è questa la pietà, o piuttosto la compassione di cui parlano i filosofi. Mi sento all’improvviso dentro te, vedo tutto il tuo mondo annegare in quella merda che ti ha distrutto, vedo e sento il terrore di un uomo che non è più in nessun modo padrone della sua vita, sento il suo sangue malato che si ritira nel non senso contro il quale ha condotto una sfida assurda e incomprensibile. Ti tengo stretto tra le braccia forte, forte, e penso che forse non potrei vivere ancora, guardare gli occhi del nostro bambino, se in questo momento non facessi tutto, ma proprio tutto quello che posso per aiutarti. Ancora una volta. Sicuramente l’ultima. Il problema è che mi sento impotente, vuota, non capisco dove devo andare, chi posso chiamare, chi mi può sorreggere. Mi guardo intorno e in quei sorrisi forzati non trovo quello di cui ho bisogno. Mi verrebbe da chiedere se faccio pena o rabbia e di certo meriterei la seconda. Barcollo dopo averti abbracciato. Vado verso casa. Sono sconvolta. Entro in casa. Sola in un silenzio che fa cattivo odore, sa di malattia, di paura, di morte, di follia.Questa casa all’improvviso mi sembra troppo grande e nello stesso tempo piccola per contenere le mie ingenuità, paure. Non ci stanno tutti i fantasmi della mia vita. Non ci stai più nemmeno tu. Non c’è spazio da nessuna parte per tanto male.  E le luci dell’albero di Natale continuano a giocare come se niente fosse. Resto con le mani congelate paralizzata in questo niente e mi stringo la testa tra le mani.

Piango, urlo, ti detesto. Non so chi insultare, non so dove contenere questo orrore che mi invade senza difese sufficienti, non so cosa farmene di tutti questi oggetti che mi circondano, che non ho mai chiesto, che non mi hai lasciato nemmeno il tempo di

 

desiderare. Li prenderei e li lancerei lontani. Vorrei picchiarti, insultarti, vorrei non averti mai conosciuto. Vorrei smettere di soffrire. Vorrei fare l’amore e venirtelo a raccontare. Vorrei giocare a nascondino o ai quattro cantoni come quando da bambina.

Vorrei l’abbraccio della gioia. Non lo ricordo più.

E invece annego nelle lacrime, ancora sempre lacrime di dolore, angoscia, solitudine estrema. Non so cosa dovrò dire ad Antonio quando lo andrò a prendere e il tempo mi si stringe addosso. Mi rendo conto che devo inventare, inscenare, tirare la mia pelle rugosa e rattrappita, asciugare le lacrime, guardare il sole di questa giornata e assorbire l’energia che mi serve per arrivare a sera. Me ne sto qui, senza respiro, ad aspettare e temere il tuo abbraccio, Antonio, so che sei la mia forza, la mia schiena, il cuore, la vita. Posso dirti che il papà ha una grave forma di polmonite e che finalmente sono riuscita ad accompagnarlo dal dottore e che per il momento sarà opportuno non vederlo, ma poi quando starà meglio lo visiteremo insieme. Mi rendo conto perfettamente che non sta in piedi e che saprai da subito che sto mentendo. Tu hai già capito molto di più di quello che vorrei, hai sentito lo stesso odore orribile che ho sentito io girarti intorno e sulla pelle, per giorni, mesi anni.

“Sei una bugiarda”, mi urli sempre quando ti accorgi che le cose non sono esattamente come te le racconto. Oppure quando non ti credo. “Chi non crede agli altri, è un bugiardo”, mi dici convinto.

La mia versione dei fatti forse ti spaventerà, penserai che ogni volta che a qualcuno viene un po’ di tosse stia per morire. Tutto assurdo, mi dico, mentro scavo alla ricerca di una versione che non ti getti nell’angoscia che sto vivendo io.

Sono quasi le cinque e non credo di potere aspettare ancora per molto. Mi faccio un tè al limone e provo a sentirmi i battiti del cuore. Mi specchio. Sono inguardabile, bianca pezza di niente senza profumo. Mi torno a truccare, mi accorgo che la pelle fa resistenza pure al fondotinta. Abbraccio Aurora, che puzza di uova come tutti i cani della sua razza. Mi chiudo la porta alle spalle e procedo verso la scuola. Quando ti intravvedo che giochi sereno e forse ignaro, un nodo alla gola mi strozza ogni singola parola pensata. Ti guardo negli occhi verde intenso e ti aggiusto la giacca che ti abbottoni sempre storta. Saluto gelido alle maestre e nel cortile prima della strada, tenendoti tra le braccia, come a

 

proteggerti, ti dico che tuo padre è all’ospedale e non sta bene. La butto sul gioco, il nostro modo preferito di comunicare, e aggiungo che è stata dura ma alla fine ce l’ho fatta  a portare dal dottore quello zuccone del papà.

“Che cos’ha mamma?”, mi chiedi, fingendoti distratto e disinteressato.

“Una forma grave di polmonite infettiva. Per qualche tempo sarà meglio stargli lontano. Potrebbe essere pericoloso. Chiederemo al medico e poi decideremo. L’importante è che si curi”, rispondo tutto d’un fiato, con tono rassicurante mentre ho davanti agli occhi quel viso di scheletro, con il naso gelato e gli occhi risucchiati dalla morte che ho lasciato lungo un corridoio appoggiato su una brandina d’ospedale qualche ora fa. Prendo tempo e aggiungo che il papà dovrà stare per molti giorni in ospedale.

“Mamma, perché il papà non si è fatto ricoverare prima, ci voleva tanto?”, e adesso sei arrabbiato forse perché ancora una volta ti tocca il ruolo dell’adulto. Io so che hai ragione, ma fino ad oggi non sono riuscita a proteggerti.

“Tuo papà ha la testa dura, lo sai, l’importante è che adesso si curerà, non trovi?, ti chiedo sorridendo e cercando di mostrarmi serena. Intanto so benissimo che tu comprendi molto di più di quanto dovresti e di quanto io stessa possa immaginare. Tu hai visto tuo padre barcollare in casa per giorni, appeso tra la vita e la morte, hai notato come me i suoi tremori a tavola quando la forchetta si arrampicava tra le sue dita ingiallite, il pallore del suo viso, gli occhi neri di morte. Tu hai visto tutto, bambino mio, dentro questa casa teatro dell’orrore. Ti sei appeso a me, e alla speranza che anche questa volta prima o dopo avrei interrotto l’assurdo a cui invece ti ho costretto. Questa volta è più difficile ancora, Antonio, ma non posso spiegarti perché non è giusto che entri nel dettaglio di qualcosa che non puoi e non devi conoscere in questo momento. Rientriamo a casa, restiamo per un poco in silenzio. Io sono distrutta e canto perché non voglio che questo fardello che ho appeso al cuore ti investa.

Stai guardando i cartoni animati, io in cucina tento una cena e tu mi fai notare quanto siamo tranquilli. Io so che hai ragione, so quanto sia stata soffocante e paralizzante quella presenza assenza tra noi nei mesi passati, e sorrido e dico a me stessa e anche a te che è vero, questa sera siamo in pace, come dici tu.

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