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2 Maggio 2013

Piovono sassi dal cielo (II parte)

di Francesca Boari | 14 min

“Sono tre mesi che non dormi, Luca, forse dovresti andare dal dott. Mantessi, farti consigliare, rischi di stare male se vai avanti così”, rispondo in quella dimensione in cui da mesi mi sono rifugiata perché non ho il fegato di sbattere te e le tue bugie fuori da questa casa. So bene perché non dormi, so altrettanto bene che nessun dottore ti può aiutare dal momento che sei tu il primo che non ti ami, come so altrettanto bene che stai facendo di tutto perché una catastrofe ci trascini tutti e tre dove vuoi tu. All’inferno, maledetto te e il tuo odore, ma chi lo ha mai potuto anche solo immaginare prima, in modo da poterlo evitare? Chi aveva intravvisto in quale notte oscura avrei dovuto calpestare i miei errori, le mie debolezze, incapacità? Chi, porca di una maledetta puttana?

Qualche mese fa Antonio, prima di addormentarsi, mi aveva sussurrato, in preda agli spaventi che preludono il sonno: “Mamma sta per succedere qualcosa di terribile, vero? Sento che succederà qualcosa di molto brutto. Mamma dimmi che non posso prevedere il futuro?”. Io, naturalmente, lo avevo rassicurato, mi sembrava terrorizzato, eppure lui sapeva già dove lo stavamo trascinando e mi supplicava, quella notte che mi sembra ora così distante, mi supplicava perché facessi qualcosa pur di evitarlo. La realtà ha superato ogni mia capacità di previsione e di controllo, mi ha buttata al muro, dentro lo spavento. Ha paralizzato anche la mia immaginazione, per quanto questa avesse già potuto andare oltre e oltre e ancora oltre, mi ha lasciata sola davanti alla miseria che sono, alla tua incapacità di vivere. Senza armi e compressa in un dolore indicibile. Ingiusto.

Sono chiusa in bagno, non passano nemmeno tre minuti e sei di nuovo qui, con le occhiaia che ti sfondano il viso, non stai in piedi, mi chiedi, come ogni mattina, che faccia hai e io ho solo un maledetto senso di vomito che mi ritorna nonostante gli sforzi a cacciarlo indietro, nello stesso identico modo in cui spingo via te.

“Vai fuori, per piacere, voglio restare un momento da sola, sei stato in bagno tutta la notte. Esci, stammi lontano, almeno dieci minuti. Non chiedo altro. Voglio fare la doccia, posso fare la doccia senza averti tra i piedi con le tue stronze domande?”.

Esci, non riesci nemmeno a mandarmi a quel paese, ti pieghi su quel corpo fragile che sa solo di avanzo e scompari.

 

 

Mi affretto, non c’è tempo, so che tra cinque minuti sarai ancora qui. L’acqua scende sul mio corpo che non guardo più, lo risciacquo, lo accarezzo, ma so che nemmeno questo è più mio. Non lo sento, lo porto in giro, ma non lo sento più da mesi, anni oramai. E’ rimasto gelido, denutrito, senza amore per troppo tempo e il bene che ho regalato, mi ha nutrito l’anima, questo sì, ma non è riuscito a fare granché per questa massa informe di ossa scomposte che come per miracolo stanno ancora insieme.

Troppo freddo nella mia vita, un inverno continuo, poche le carezze, i baci non li ricordo, e i denti sono rimasti in pochi a farsi compagnia. Ogni tanto mi si accende una luce negli occhi, accade soprattutto quando penso al passato, con quello straordinario potere della mente di ingigantirlo e restituirmelo deformato e sempre e comunque bello, spettatori di un film, in cui i nostri profili non si riconoscono.

E non basta più nemmeno questo, accelero, il tempo sta per scadere, non voglio incrociare i tuoi occhi, nemmeno sentire la tua voce. Mi vesto con noncuranza e fretta, con gli abiti morbidi che ho comprato senza desiderio. Li raccolgo al buio e semplicemente li infilo dove devo. Questi bellissimi abiti che ho e non so di avere. Non mi specchio più. So di buono, felce azzurra, borotalco, famiglia. Allungo le mani verso la cipria e la terra per coprire, celare il pallore delle notti che non finiscono mai e sono sempre senza sonno, senza riposo, nemmeno riparo. Infilo gli stivali, sempre quelli, la suola sta cedendo. Sono pronta. Esco in tempo dal bagno prima dell’incrocio con te e mi infilo nella stanza sicura di Antonio. Mi stendo solo per un attimo di fianco al suo corpo invadente e pulito, lo abbraccio per scaldare il cuore prima del buongiorno che gli devo, lo abbraccio per alimentarmi di quella energia che tu, Luca, giorno dopo giorno, mi stai togliendo. Lui continua a dormire, odora di buono, è semplicemente bellissimo. Gli bacio i piedi, gli infilo le calze e ancora dorme, lo chiamo dolcemente.

“Buon giorno, amore mio”, e arriva Aurora che lo lecca e lo tira per le maniche del pigiama.

“Che giorno è, mamma?”, mi chiede in dormiveglia.

“Lunedì, il tuo giorno preferito, hai quattro ore di matematica”, gli dico sperando di motivarlo al risveglio.

 

 

E infatti è già in piedi, pronto alla gara con la sua cagnolina, lungo le scale a vedere chi arriva per primo. Guarda caso è sempre lui, perché io sono tenuta a lasciare passare Aurora solo dopo qualche istante dalla sua partenza.

Antonio si chiude la porta del bagno alle spalle e si prepara. Non ha piacere di essere aiutato. Da circa un anno non vuole che nessuno lo veda nudo. Nemmeno Aurora. Io rispetto questo passaggio. Mi convinco dentro di me che passerà. Accetterà l’inevitabile trasformazione del suo corpo e un giorno imparerà ad amarsi senza paura.

Così penso e intanto risalgo le scale, dopo avere raccolto le forze per dirti che tra mezz’ora ti accompagno al pronto soccorso. Se sarà necessario ti ricovererai. Tu biascichi qualche parola che si inghiotte nel tuo stordimento. Forse cerchi invano di bloccarmi. Io non ti ascolto più. Non hai la forza del rifiuto, sei tutto un tremore. Voglio che tu esca al più presto da questa casa e che non ci entri mai più. Voglio spostarti da qui, voglio che Antonio non ti veda più in questo stato. Mi fai orrore, paura. Sgomento.

Sono passati dieci giorni da quando ti sei chiuso in casa. Sono dieci giorni che non mangi, non bevi, non dormi e giochi a ingoiare psicofarmaci e a miscelarli con l’alcool. Sali e scendi a fatica le scale, provi a vestirti per uscire e poi di nuovo ti butti senza forze sul letto ingiallito e maleodorante. Tratti male tutti, persino Antonio. L’altro giorno mi ha detto che gli hai fatto il terzo dito. Esci casa e dopomezz’ora rientri con le tasche piene di soldi. Prelevi con la carta di credito, la carta d’oro come hai più volte detto ad Antonio vantandotene, e metti tutti questi maledetti e sporchi soldi nel cassetto della biancheria. Per cosa, per chi? Ti stai comprando un’altra macchina, l’ultima era solo sei mesi fa, ma questa è meglio perché ha il cambio automatico e tu non puoi girare senza. Non ti ascolto più, mi dai la nausea, ti ignoro, mi giro d’altra parte e intanto mi lacero del tuo vuoto, di non potere condividere niente con te. Tu non sei più quell’uomo con il ciuffo e la esse tra i denti che ho tanto amato e con il quale avevo costruito un castello con mille stanze.

Come hai fatto a ridurti così? Mi viene il sospetto che tu non sia mai stato diverso e che quello che vedevo allora fosse solamente una proiezione dei miei sogni, dei desideri coltivati con cura negli anni. Io ero pronta ad entrare nella nostra avventura. Tu?

In tal caso il mostro sarei io, io che ti ho usato come fossi un mezzo per arrivare all’unica cosa che volevo davvero e che da sola non avrei mai potuto essere. Una madre.

 

Mi viene il dubbio che tu sia sempre stato così, superficiale e narcisista, immaturo e incapace di amare e che io ti abbia trascinato a forza in un mondo e in una vita in cui tu non saresti mai stato diverso da quello che sei, perché non era lì che volevi essere.

“Antonio la colazione è pronta. Mangia che poi ti do i fiori di Bach, e ricordati che devi bere e fare la pipì a scuola”.

Era la fine di settembre quando con la tua vocina dal bagno mi avvertivi che “questa volta mi sarebbe venuto un colpo”. Io pensavo ad uno dei tuoi soliti scherzi, sai che sono ansiosa. Poi quando ho visto le tue urine rosse come il vino invecchiato, continuando a cercare di fare finta con te, ho preso un colpo. Il cuore alla gola, il battito veloce e il grido disperato lanciato contro l’indifferenza del cielo “mio figlio no”. Siamo corsi all’ospedale, la pipì raccolta in una bottiglia di plastica. Tu, creatura mia, eri spaventato e io, più di te, cercavo comunque di rassicurarti. Continuavo a darti da bere e dicevo a me stessa che in questo modo la tua pipì sarebbe tornata bianca, trasparente come la tua pelle di porcellana. Arrivati al pronto soccorso le dottoresse ti hanno fatto tutti gli esami.

“Tutti negativi, signora”, disse una voce indifferente guardandomi negli occhi.

“Perciò lo ricoveriamo”, chiuse con fare anche spiritoso.

Stordita, non capivo se rallegrarmi del fatto che il peggio veniva scongiurato dagli esami e nello stesso tempo il ricovero doveva servire a procedere in altri indispensabili accertamenti che evidentemente richiedevano più tempo. Certo quello che ti era capitato non poteva essere preso sotto gamba e necessitava di chiarimenti clinici. Per due giorni nessuna risposta.

“Non sappiamo, signora, gli esami non ci consentono una diagnosi certa, siamo propensi a diagnosticare la malattia di Berger”, mi disse finalmente una giovane e affettuosa dottoressa.

“E sarebbe?”, chiesi allarmata.

Non riuscirono a spiegarsi granché bene e per questo chiesi subito un incontro con il primario e decisi io, dopo sei giorni di incubo, esami di ogni genere, le dimissioni. Tu stavi meglio, anzi non eri mai stato male. Le tue urine erano nel giro di un paio di giorni tornate chiare. Quindi perché attendere? Che cosa ancora? Dovevo consultare altri pareri,

 

 

avevo un disperato bisogno di dormire nel mio letto e non vegliare su una poltrona, dovevo studiare e consultare. Io dovevo sciogliere questo nodo.

E tu, Luca? Tu dov’eri?

Anche in quella occasione, mentre a me mancava la terra sotto i piedi, tu hai dimostrato con le tue assenze che in fondo non eravamo che cornice nella tua vita. La nostra distanza ti aveva fatto bene. Finalmente eri riuscito a riposarti. Sono parole tue, ricordalo sempre. Ricorda, se farai in tempo, che anche in quel momento, ad aggiungersi agli altri, come se ce ne fosse bisogno, ho avvertito un profondo e lacerante senso di solitudine, stretta in un abbraccio senza l’altro, dentro una inguaribile sensazione di vuoto e di distanza incolmabile, tra la mia assurda capacità di darmi e dall’altra parte sempre e solo un silenzio assordante, che ti toglie il fiato della corsa, il respiro e anche il sangue, se possibile.

Anche in quella occasione non ti ho urlato addosso la mia rabbia per la tua incapacità di amare, di darti agli altri, ma soprattutto a tuo figlio che ti implora come padre da quando è nato. Del resto so bene che avrei urlato a un sordo.

Mi sono chiusa in quello stesso silenzio a pregare che te ne andassi da noi il più presto possibile, incapace io per prima di reagire, incapace di muovere anche solo un dito sulla polvere delle nostre vite, di girare la chiave nella serratura e lasciarti fuori per sempre, lontano da noi che odoriamo di buono. Incapace di scegliere, spaventata dalla sola idea che anche la cosa migliore alla fine potesse avere un prezzo che non sarei stata in grado di pagare. Paura di tutto, anche della mia ombra, di quello che in fondo sono stata fino ad oggi.

Luca, e tu perché non hai preso a schiaffi la mia indifferenza? Perché non hai saputo tradurre in senso tutta questa impotenza, alzandoti la mattina e rovesciando con un solo gesto d’amore e comprensione questo lungo, estenuante, interminabile viaggio verso il niente?

Non si può vivere, forse neppure sopravvivere nel niente. Abbiamo riempito la nostra vita insieme di cose per non sentirci così soli e siamo arrivati insieme ad un traguardo che forse potevamo evitare. Questo non riuscirò mai a perdonarmelo. E nemmeno a te, lo perdono.

 

Questa è la verità, lo sai e mi dici come sempre che ho ragione. Di questa ragione che oggi mi vomita addosso mi vergogno. Me ne faccio poco perché ho visto di nuovo la morte camminarmi intorno e questa volta ho avuto anche il timore di un suo abbraccio. Odoro, nonostante tutto, ancora troppo di vita. Non mi piacciono gli addii, odio le stazioni. Amo la vita, anche la mia vita, quella che ancora devo vivere e quella che ho vissuto fino ad oggi seppure nell’errore.

Qualcosa è cambiato.

“Antonio, saluta papà, andiamo a scuola”.

“Ciao Luca”, strilli isterico dalle scale. Nessuna risposta. Allora ti attacchi al campanello e torni a gridare. Eccolo il rantolo mattutino di tuo padre, che ruzzola a fatica dalle scale e ti invia alla tua giornata. Tuo padre che non sa niente di te e pensa ancora che tu faccia l’asilo. Tuo padre che si dimentica il tuo compleanno. Tuo padre che ogni sera ti chiede domani a che ora vai a scuola. Tuo padre che non ti ha mai accompagnato da un pediatra. Tuo padre che non ti ha mai sorriso per niente. Tuo padre. Tuo padre che si perde nei giochi pericolosi e si allontana sempre più dalla meraviglia, che forse non ha mai avuto l’occasione di incrociare. Tuo padre di cui io mi sono innamorata e ho sposato incosciente e felice tanti anni fa. Allora la vita rideva e questo inferno non era nemmeno lontanamente immaginabile. Non è una giustificazione, chiaro, solo perché tu, creatura dolcissima, sappia che si sbaglia anche e soprattutto nell’amore. E sappia anche che poi si può, anzi si deve ricominciare, perché non è possibile sopravvivere senza.

Tuo padre che da quando frequenti la scuola elementare, non è mai andato a parlare con le maestre. Tuo padre che, rientrando la sera , non ti ha mai chiesto come è andata la giornata, non ha mai sfogliato un tuo quaderno, controllato i compiti, i voti. Tuo padre che non sa come scrivi.

La tua scrittura, Antonio, è ogni giorno diversa, naturalmente non servono psicologi o esperti in materia, per capire che nel segno ci entrano i nostri stati d’animo. Diventa da piccola e stretta, senza dubbio illeggibile, a lunga e larga. No, non sei disgrafico, come qualche maestra sempliciotta ha detto di te per tradurre in una parola di gran moda una vita come quella che hai vissuto fino ad oggi, figlio mio. Io lo so, che non fai che segnalare con tutti i modi e i linguaggi che conosci e, crescendo, impari, la tua sofferenza.

 

“Cosa avrei fatto io ad Antonio? Non capisci che è solo un bambino e non può capire niente di me, di quello che faccio e non faccio?”, così ti sei sempre giustificato davanti ai miei sfoghi, e alle sue urla inconsolabili.

Ogni volta le stesse risposte, sempre sulla difensiva e poi subito pronto a fare ricadere la colpa sugli altri.

“Tu, piuttosto, non ti rendi conto che sei soffocante, che non lasci spazio agli altri con le tue ansie di madre, il tuo senso di protagonismo ad ogni costo, tanto da essere ovunque. Lo metti a disagio, in questo modo, solo a disagio davanti agli altri. Ecco cosa stai facendo!”

Mi sembrava di impazzire quando mi parlavi così, perché per certi versi non potevo che darti ragione, per altri chi poteva fare tutto quello che era necessario? Tu?

Ma dov’eri tu? In quale betola, bar, enoteca, ristorante del diavolo eri? E soprattutto in che stato? Come ti saresti presentato a scuola da Antonio, lo avresti protetto e in che modo se nemmeno riuscivi a reggerti in piedi in certi momenti? E saperti in macchina con lui, potevo in qualche modo accettarlo? Potevo forse fare finta di niente, aggrappandomi sempre alla speranza che non sarebbe successo niente come mi dicevano i tuoi dottori? E la volta che fosse poi successo qualcosa, come me lo sarei perdonato? Io so, Luca, so tutto.

Sono passati tre anni da quando ti hanno diagnosticato la cirrosi, e all’inizio avevi fatto finta di niente, sapevo invece che questo ti avrebbe compromesso per sempre quel poco di equilibrio che ti avanzava. Per qualche mese avevi smesso di bere ma in compenso ti intontivi di psicofarmaci. Poi non hai retto, la colpa forse è anche mia, gli amici, le serate anche se poche in compagnia, la bottiglia scelta da intenditori e di nuovo dentro l’incubo.

La prima volta, sette anni fa, pensavo che ce l’avremmo fatta, sarebbe stata dura certo, ma per Antonio potevamo tentare. Tre anni fa sono incominciate le mie preghiere perché tu sparissi per sempre. Immaginavo oggi non torna, sentivo un sirena e dicevo a me stessa “è morto”. Non torna più e io non lo cerco, lo lascio al suo volo, dentro quella merda che gli toglie la vita che non merita, smetto di pregare, smetto di chiamarlo. Tanto non risponde, l’uomo che ho sposato non esiste più. E’ solo un nome sbagliato nella rubrica del telefono, confusione. Un nome sbagliato dentro la mia vita, la nostra vita.

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