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30 Aprile 2013

Piovono sassi dal cielo (I parte)

di Francesca Boari | 6 min

Lunedì

 

Ore sette e dieci. Suona la sveglia e le gambe il solito macigno che devo ricomporre per alzarmi. E’ necessario che anche oggi mi alzi e senza lamento. Il sorriso dimentico, lontano, abbandonato indietro negli anni. Oggi non lo indosso, ieri nemmeno. Di fianco il tuo corpo, sudato di un odore insano, quel corpo si arrotola ancora tra le mie stesse lenzuola che puzzano di giallo, di bile, di una malattia incurabile, di un lento e desiderato lasciarsi andare all’abbraccio della morte. Ti guardo con l’indifferenza che indosso da mesi e tu, imbrigliato nel tuo egoismo, nemmeno te ne accorgi e continui come se io non ci fossi. Hai deciso di portarci tutti quanti all’inferno, nella tua maledetta discesa, trascinando le nostre vite con quello che resta della tua.

Questi i pensieri di ogni mattina perché altro non abita la mia mente, da quel giorno che, che dio ti fulmini, il brandy per l’arrosto, scadente, comperato per due soldi al supermercato, la bottiglia vuota in bagno, e tu. Sono trascorsi sette anni da allora, ti ricordi, certo che non ti ricordi, rantolavi a terra e io tenevo tra le mani la bottiglia vuota, come vuoto era il suono delle tue parole.

“Non lo faccio più, perdonami, ti giuro su mio figlio”, gridavi soffocato dalla disperazione di un abbandono che sentivi ormai sopra e dentro di te.

Da quella mattina io non ti ho mai più creduto. La mia speranza l’ho appesa all’impossibile, le mie giornate si sono susseguite senza alito e sole, tutto è diventato semplicemente inutile, ogni sforzo svuotato. Questo, te lo giuro su mio figlio, è vero.

Di fatto? Ho continuato a tenerti con noi pur sapendo perfettamente quello che non potevo, non avrei mai potuto ammettere a voce alta, ovvero che il mio sposo era morto, il padre di quella creatura meravigliosa che urla dalla nascita la nostra ignoranza e vigliaccheria, quel padre non è mai esistito. Ho sempre ripetuto a me stessa, come a consolarmi ad ogni costo per quella immobilizzante inerzia e incapacità a volgere diversamente, e ho creduto davvero per il bene di tutti e tre, che non avevo diritto di privare mio figlio del padre, chiunque fosse. Cosa è successo, lo abbiamo davanti agli occhi accecati di dolore, annebbiati di bugie, ubriachi di stanchezza, assetati di speranza e nuovi orizzonti. Senza poterli vedere.

 

Perseverando nella mia follia, ad oggi mi ritrovo davanti un bambino che è più grande di me, a cui chiedo consiglio prima di muovermi, che ascolto come fosse un oracolo.

Questo bambino è lo specchio di quello che non sono stata capace di essere fino ad oggi, della mia incapacità di agire secondo elezione di fini che si traducano, ti prego dio fai che sia così, in senso. Il mio giudice che senza pietà mi mette sotto agli occhi una sentenza che non avrei mai dovuto fargli scrivere.

E’ successo. Non c’è niente nella vita di ciascuno di noi che non sia determinato almeno in parte da una nostra precisa e ben evidente responsabilità. Il più è avere il coraggio di essere semplicemente uomini e ammetterlo. Essere uomini? Essere fedeli alla terra dice il mio filosofo. E fosse semplice. Quando iniziai a studiare la filosofia al liceo non capivo che nella semplicità di quella frase “conosci te stesso” è contenuta quella verità che ci ostiniamo a cercare da sempre chissà dove.

Conosci te stesso, conosci te stesso, conosci te stesso. Non è facile. Ci sto ancora provando. Da allora.

Scendo le scale e mi avvio alla macchinetta del caffè in capsule che hai ordinato e naturalmente non pagato. Ecco la prima tazzina di caffè non pagato dentro la quale i pensieri si dilatano al posto dello zucchero. E subito la seconda, tanto non costa, così ho anche la forza di risalire le scale per entrare in bagno ad incrociare la mia immagine sbiadita allo specchio. Entro e mi chiudo la porta alle spalle e anche qui, soprattutto qui, ritrovo quell’odore terribile delle tue infinite notti insonni, raccolte nelle scatole vuote di psicofarmaci sempre diversi. E ritrovo i tuoi mozziconi di sigaretta, solo il giallo, lo stesso colore del tuo viso, dei tuoi occhi, delle tue dita. La radio accesa su quella merda di musica e parole smodate e insensate che sai che detesto. Ci sparerei sopra la nona di Beethoveen, Chopin, perfino Allevi, ricoprirei la vasca di borotalco, quello del nonno ( non vi lascio molto ma siate onesti sempre onesti, queste le sue ultime parole, il suo ultimo respiro, l’eredità più grande).

Mi chiedo come fai tu a vivere così, con la puzza addosso, senza amore e compassione, mi chiedo se questo mio sforzo a camminare di fianco a te potrà mai avere un riscontro di senso, o piuttosto, come sembra ad oggi,  solo un urto da capogiro.

 

 

Sto portando avanti un gioco al massacro assurdo e inconcepibile, mi sto togliendo la gioia dagli occhi, il sorriso dalle labbra. Ho trasformato il mio viso in una maschera e il mio corpo in uno scheletro.

E non siamo nemmeno soli, c’è lui, il nostro bambino, che ci guarda, ci studia e soprattutto ci cerca. Io ci penso ogni singolo istante, non riesco a darmi pace. Sento che lui ogni giorno cerca di provocare quello che non ci dimostriamo in grado di provocare noi. Tu, chiuso in questo bagno sudicio dei tuoi vizi e delle tue paure, ci hai mai pensato?

Domanda idiota, tu non pensi più a niente e a nessuno. Nel tuo completo e incomprensibile ottundimento pensi che una vacanza di lusso o un paio di pantaloni, o un gioco elettronico possano essere abbastanza.

“In fondo cosa vi manca? Non vi ho mai fatto mancare niente”, suona la tua voce stordita e confusa ad imbrogliare te per primo e quindi a tentare di confondere noi. E l’amore, sai che cosa intendo quando dico questa parola stonata appoggiata sulla nostra storia?

Posso solo provare, semmai arriverà, ad immaginare il giorno in cui tenterai il sussurro del perdono e allora, ti giuro, non riesco a vedere il tuo viso, mi sembra impossibile che tu sappia e possa riconoscere tutto il male, la sofferenza indossata del tuo non esserci mai stato, di non avere avuto il coraggio di lasciarci andare, tenerci a distanza e quindi protetti da questa assurda corsa verso l’autodistruzione di quello che resta di te. Ecco il mio viso che si stira davanti allo specchio. Ecco quello sguardo spento che non riconosco, le labbra secche, il collo magro. E poi tutte queste ossa che mi sento addosso, questo seno sgonfio che non sa più di vita perché denutrito, senza amore, senza dolcezza. Mi sfioro le gambe e mi ritorna l’amaro in bocca che non è il retrogusto del caffè.

La prima sigaretta mi restituisce la pressione e la forza sufficiente a muovermi verso quello che mi ostino a chiamare vita. Nello stesso tempo, mi trasforma ogni giorno di più in una res fumante grigia proprio come il fumo che si sparge sui nostri corpi adulti tradotti in cenere davanti agli occhi.

Getto con stizza le scatole dei medicinali che lasci ovunque nel cestino della spazzatura e quei mozziconi impiccati a testa in giù.

“Cazzo stanotte mi sono bruciato le dita”, è il tuo modo di dirmi buongiorno.

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